Bob Marley non era rasta, era un baye fall

L.M. - 8 Novembre 2010
Dakar-clandò
La rubrica di Chiara Barison
Rastafarismo e bayefallismo


Incontro Khadim per caso, una mattina assolata di novembre. E’ seduto di fronte a me nel traghetto che dal porto di Dakar porta all’isola di Gorée. Non ho potuto fare a meno di osservarlo, è vestito da bay fall ed è un bianco. Nonostante i miei anni si studio e di ricerca antropologica mi rendano davvero difficile giudicare a primo impatto, non riesco a non trovarlo bizzarro. Se n’è accorto subito, credo sia abituato allo sguardo curioso e giudicante della gente. Ha l’aria serena e due grandi occhi nocciola che brillano. Sorride e il suo sorriso lo si nota chiaro nonostante il barbone incolto. Mi dice “vieni dopo al castello, mi troverai lì ed avremo modo di parlare”.

Eppure non gli avevo chiesto nulla, già, non a voce almeno. A volte gli occhi parlano più della bocca. Come una bambina curiosa che gira la testa per fissare nella mente la novità di un incontro, lo osservo tutto il tempo del viaggio. In tanti, senegalesi, sembrano conoscerlo, lo salutano con rispetto “Baye fall, begué” (come butta, baye fall). Lui, sempre sorridente, saluta tutti porgendo la mano e portandosi la mano dell’altro alla fronte, secondo il saluto tipico dei baye fall. I baye fall sono i discepoli di Mame Cheikh Ibra Fall, una delle figure chiave del muridismo, la confraternita islamica sufi, il cui fondatore è Cheikh Amadou Bamba. Il baye fall applica alla lettera il “Jebbellou” che vuol dire la sottomissione totale al proprio marabutto, abbandonando la materialità della vita moderna per la spiritualità della religione islamica, la condivisione e il lavoro. Negli ultimi anni il dibattito nei loro confronti è più che mai acceso, specie a Dakar, dove a gruppi inseguono i passanti chiedendo una piccola offerta. I baye fall non passano inosservati con i loro lunghi rasta e i vestiti a scacchi colorati, uno sopra l’altro, grosse cinture a cingere la vita, collane con la foto del marabutto di riferimento bene in vista e piccoli contenitori dove fanno saltare come uova fritte piccole monetine, offerte dai passanti. Cantano e pregano urlando e ti circondano, ti prendono per un braccio, ti inseguono fino a che tu, esausto, sei costretto a tirare fuori dei soldi pur di liberartene.


Il dibattino pro e contro baye fall nasce proprio da questo loro modo di fare che spesso sfiora l’aggressività e che nulla ha a che fare con il messaggio di pace che il bayfallismo, in origine, portava con sé. Oggi gruppi di ragazzi di strada si riversano nelle daare, le comunità religiose di baye fall, sparse in tutta la capitale. Come spesso accade in tanti, troppi utilizzano la religione per le proprie necessità e con la scusante di raccogliere soldi per il marabutto, che poi dovrebbe riutilizzarli per le necessità della comunità tutta, chiedono soldi che poi spenderanno in bevande alcoliche e fumo. La gente, stanca dei “baye faux” (dei falsi baye fall), come sono stati ribattezzati qui, comincia a lamentarsi e a detestarli, contribuendo a creare lo stereotipo falso e pericoloso che vuole tutti i baye fall dei tossici alcolizzati che ti aggrediscono per i soldi. Purtroppo in origine il movimento baye fall era ben altro e nasceva con l’idea del lavoro e della condivisione. I baye fall allora vivevano in comunità, lavorando i campi per il marabutto che poi ridistribuiva i proventi delle vendite alla comunità attraverso la costruzione di scuole, la distribuzione di cibo alle famiglie meno abbienti, l’accoglienza e l’istruzione di bambini orfani o poveri.
Dopo una lunga scarpinata arrivo ad una piccola casa, lì dove Khadim mi aveva indicato. Lo trovo seduto vicino ad un grande baobab assieme alla moglie, una giovane senegalese incinta di otto mesi. “E’ il mio primo figlio” mi precisa orgoglioso “anzi, figlia”. Come se ci conoscessimo da sempre parliamo, ore. Khadim è figlio di una donna spagnola emigrata in Francia e di un francese. Nato e cresciuto nella periferia parigina mi dice “sono uno di quei tanti ragazzi della banlieu cresciuto nella strada tra teppismo e poca fiducia rispetto al futuro” poi continua “a 17 anni ho abbracciato la cultura rasta e ho cominciato a frequentare gli altri rasta del mio quartiere, quasi tutti ragazzi delle Antille. A 20 ho deciso di emigrare in Guadalupe. Avevo bisogno di trovare la mia terra, la mia strada, che non era sicuramente la Francia e Parigi”. Khadim, conosciuto anche con il nome di Ruben, è partito così verso la piccola isola delle Antille e lì ha vissuto 19 anni. “Ho fatto un po’ di tutto, poi ho trovato una piccola casa in mezzo alle montagne, dove vivo fino ad oggi coltivandomi tutto ciò che mangio e rivendendo i prodotti giù in città. Il rastafarismo mi ha insegnato l’amore per la natura e che non abbiamo bisogno di molto per essere felici” mi racconta “poi ho iniziato a sentire che qualcosa mi mancava, sentivo che ai rasta mancava una guida forte che potesse tenerli assieme. Il ricordo di Bob Marley non era più sufficiente e il razzismo si faceva sentire forte. In troppi mi rigettavano perché bianco e questo non era ciò per cui ero scappato dalla Francia. Com’era possibile che i miei fratelli neri continuassero a vedermi bianco? Eppure io non vedevo il loro colore. Per me eravamo tutti fratelli, uniti dalla religione rastafari”.
“Come mai sei arrivato in Senegal?” gli chiedo curiosa. “Ad un certo punto ho sentito il richiamo dell’Africa. La mia strada era qui e sono partito. Ho girato tanti paesi ma la mia missione era qui in Senegal. E’ qui che ho conosciuto il marabutto Serigne Fallou ed è a lui che oggi ho consacrato la mia esistenza. Grazie a lui sono diventato un baye fall”, risponde.
Poi continua “essere baye fall vuol dire che non pensi più a te stesso e ai tuoi bisogni. La tua unica preoccupazione è di fare del bene per gli altri. Se hai non è per te, è per tutti. Il baye fall è fratello di tutti, senza distinzione di genere o colore, vive in pace e distribuisce pace”. “Sei sereno oggi?” gli chiedo. “Sì, vedi noi esseri umani siamo in costante ricerca, ognuno di noi ha una missione da compiere. La mia è quella di tornare in Guadalupe e far conoscere l’Islam e il bayfallismo ai miei fratelli laggiù. L’Islam è una religione di pace e chi ha fede, chi crede, troverà le

risposte ad ogni sua domanda”.

Khadim è davvero sereno e mette serenità. “Vedi Chiara, nel nostro cervello sono presenti due emisferi, uno che rappresenta il lato negativo e uno il lato positivo. Entrambi sono costituiti da piccole cellule. Ogni volta che noi pensiamo in negativo, utilizzeremo parte di queste cellule negative e attireremo a noi solo il male perché dovremmo rimpiazzare le cellule rimaste vuote. Viceversa se nella vita penseremo positivo, attireremo di conseguenza il bene, è solo una questione di come ci poniamo. La gente oggi sceglie il male perché è la via più facile. E’ più facile pensare per se stessi e chiudere il cuore agli altri. Ma fare il bene ti riempie l’anima e ti rende felice”.
Khadim ha ragione, lui e la moglie sembrano usciti da un libro di favole. Vivono sereni immersi nella natura ed essi sono il prodotto di un incredibile meticciato culturale. Essi escono da ogni categorizzazione possibile, sono il sogno di Senghor realizzato. E a dire il vero un leghista si sentirebbe spiazzato in loro presenza. Gli faccio un’altra domanda “cosa ti mancava nel rastafarismo che hai trovato nel bayefallismo?”. Lui risponde sicuro “quando ero un rasta mi accorgevo che vivevo nel mio piccolo mondo. I rasta vivono tra di loro, escludendo il resto del mondo. I baye fall vivono nel mondo e hanno il cuore aperto a tutti. Questa è la differenza. Bob Marley era così, si è battuto per combattere le differenze, il razzismo. Lui aveva il cuore aperto e la sua missione era globale, non era locale. Bob Marley non era rasta, era un baye fall, ne sono certo”.
Sorrido pensando a Bob Marley girare per Sandaga chiedendo soldi per il marabutto, eppure ciò che Khadim ha detto ha un suo perché. “Sai, io vado dove sento c’è qualcosa che mi chiama’ gli confido. E aggiungo ‘è stato così per il Senegal ma so che anche nelle Antille c’è qualcosa che mi aspetta”. Khadim scrive qualcosa su un foglio e me lo passa, è il suo numero di telefono. Una riga sotto, la mail. “Vieni quando vuoi. Casa mia è casa tua. Nella vita niente è per caso, nemmeno gli incontri”. Sorrido. So che ha ragione. Ed è per questo che sono positiva, sempre, perché so che ogni giorno è una sorpresa. Forse in fondo un po’ yaye fall lo sono anche io, chissà.