Razzismo d'importazione e migrazione

L.M. - 23 Novembre 2010
Dakar-clandò
La rubrica di Chiara Barison
L’altro razzismo: la rabbia dei migranti di ritorno nel loro paese verso i bianchi immigrati

DAKAR(SENEGAL). Siamo in pieno inverno e a Dakar ci sono 24 gradi. E’ domenica e il silenzio in cui cala la città nell’ora della preghiera pomeridiana mi ricorda i lunghi interminabili pomeriggi estivi quando, piccola e scalza, girovagavo per una Partanna deserta alla ricerca di cani randagi.

Con Vera abbiamo deciso di fare una passeggiata in quartiere per andare alla boutique vicino a comprare il gettonatissimo ‘pan-thon’ come chiamano qui del pane farcito con tonno, uova e maionese. Stavamo ridendo parlando della festa organizzata il venerdì prima quando l’occhio mi è caduto su una macchina bianca parcheggiata proprio nel bel mezzo della strada.

Le portiere aperte lasciavano intravedere tre ragazzi tranquillamente seduti ad ascoltare musica. All’improvviso un taxi sopraggiunto da dietro ha cominciato a suonare a me e Vera. Non sapendo da dove passare aveva optato per la scelta “senegalese”, passare per il marciapiede sulla destra. Polemica come sempre mi ero allora fermata per impedirne il passaggio, dicendo al tassista che se doveva lamentarsi di qualcosa non era certo con noi ma con l’intelligente parcheggiato in sosta nel bel mezzo di una strada.
Neanche il tempo di finire la frase che il ragazzzo seduto all guida, un senegalese di non più di trent’anni è sceso sbraitando e urlando. “Ma che cazzo vuoi! Vaffanculo! Io faccio quel cazzo che voglio sono a casa mia!” E continuando “puttane! Voi bianche siete tutte puttane! Dovete stare zitte e tornare a casa vostra”.


Non è la prima volta che subisco episodi di razzismo, fenomeno purtroppo crescente in Senegal. Di due anni fa a Pikine un’aggressione fatta a colpi di pietra. La strofa ripetuta sempre la stessa, “torna a casa tua toubab. Qui siamo in Senegal”. Purtroppo si fa spesso l’associazione del termine razzismo con il binomio bianco verso nero; occidentale verso africano; europeo verso migrante. Esiste invece un altro razzismo, il cosidetto razzismo al contrario di cui non si parla mai, quasi fosse un tabù, il prezzo da pagare per il pesante bagaglio storico che ci portiamo sulle spalle. Eppure il razzismo dovrebbe restare razzismo indipendentemente dalla direzione, dal colore e dalla bandiera. E sebbene bisogna tenere in considerazione i differenti background storici che lo hanno generato, resta pur sempre il figlio dell’ignoranza, della paura irrazionale, della non conoscenza che non ammette né giustificazioni, né attenuanti.


Ricordo vivo lo sguardo di questo ragazzo, l’odio, la rabbia e le parole urlate ad un centimetro dalla mia faccia, la mano levata in aria, “fate schifo voi bianchi di merda”. Parlava in italiano, come spesso accade qui per i migranti di ritorno, fare vanto dell’esperienza migratoria, del viaggio e della lingua che li lega al paese dove si sono trovati a migrare, è motivo per attirare l’attenzione; per mostrare che sì, loro ci sono riusciti, loro sono partiti. In questo caso la violenza delle parole, le grida mescolate alla lingua italiana avevano attirato tutto il quartiere. Il ragazzo non accennava a smettere anzi, sembrava quasi invogliato a continuare visto tutte le persone che erano accorse. Inutili le mie parole “non possiamo pagare noi per i razzisti che hai incontrato”. E poi ancora grida, insulti e i ragazzi che ci dividevano cercando di allontanarci. Io e Vera non abbiamo parlato per un bel tratto di strada, eravamo senza parole. Da lontano ancora lui, “ho fatto dodici anni nel vostro cazzo di paese, per questo odio i bianchi” e il suo sputare nella nostra direzione.


E’ davvero un periodo strano quello di queste ultime settimane a Dakar. Strano caso del destino ho conosciuto uno skinhead italiano arruolato nella legione straniera e un nazionalista vicino al pensiero dei Black Panthers, senegalese. Uno skin bianco e uno skin nero, come li chiamo io. Seduta a parlare prima con uno, poi con l’altro, le voci si confondono, si mescolano, si sovrappongono e non si capisce più chi dice cosa. Cambiano i colori ma gli ideali sono gli stessi, separazione rigida, nazione e tradizione, purezza della razza. Il primo, bianco, figlio di quella politica europea crea-mostri che da anni fa la guerra ai migranti, preoccupato di una presunta islamizzazione dell’Europa e di una, sempre presunta, perdita di valori, tradizione e identità italiche; il secondo, nero, figlio dell’odio storico, vuole far passare un evidente razzismo come un nazionalismo che punta alla riscoperta dei valori, tradizioni, identità proprie dell’Africa pre coloniale. Il primo mi dice spesso “non mi piacciono i neri”, il secondo “io non sopporto i bianchi”.


Dakar, anno 2010. Non so davvero più cosa pensare se non che Luca e Ousmane, questi i loro nomi, sono esattamente il filo comune che lega le sorti di un mondo ormai perso, imprigionato in stereotipi, pregiudizi, paure irrazionali create ad hoc da una politica subdola e furba. Eppure basterebbe riaprire i libri di storia per accorgarsi che ci stanno prendendo tutti in giro. Leggevo ieri un libro intitolato, Senegal, di Eric Makedonsky, sulla storia del paese e così è scritto: “quanto ai francesi, il loro desiderio di disgregare la vecchia federazione dell’Africa Occidentale si inspirava al vecchio detto, dividere per regnare”. Ecco, oggi nulla è cambiato, solo che da locale, la trappola si è fatta globale. Quale tattica migliore per far sì che sia il popolo stesso a chiedere un governo repressivo e dittatoriale senza che si accorga che già si stà imponendo con la forza un governo repressivo e dittatoriale? Creare divisioni, differenze, paure, timori verso lo straniero, l’altro. E ancora, cosa meglio dell’odio razziale e di una presunta difesa della propria terra, della propria nazione? Ed ecco che l’antica guerra tra bianchi e neri, assopita da qualche tempo, ritorna in auge sempre più sottile, dura, profonda.


In Senegal è curioso notare come l’aumento del razzismo e di episodi violenti (inesistenti fino a pochi decenni fa) sia da attribuirsi soprattutto ai migranti di ritorno. Sono proprio coloro i quali tornano (volontariamente o forzatamente, tramite espulsione, per esempio) che sembrano divenire i più conservatori, nazionalisti, razzisti.
E’ nello straniero occidentale che vengono riversate rabbia e collera rispetto ad un sistema diseguale che chiude le porte, impedendo a loro, gli africani, di poter entrare in un’Europa ormai fortezza. L’origine dell’astio è sempre e solo una, l’ingiustizia di base che vuole alcune persone libere di viaggiare e altre imprigionate a casa loro.


Sorseggio un po’ d’acqua e penso. Nella testa ancora gli occhi di quel ragazzo e il suo dito puntato; le parole di Luca e le sue battute sugli “scuri volti”; le risate di Ousmane guardando un documentario su come i senegalesi si prendono gioco di vecchie turiste francesi e il suo “dieredieuf” (grazie) indirizzato proprio a questi senegalesi. Sospiro, è un cane che si morde la coda. Ma quando finirà questa spirale autodistruttiva? O, peggio ancora, quale sarà la prossima tappa dopo questo ritorno al passato e all’odio? Bisogna chiederselo, ed è davvero importante.