Profughi detenuti in Sinai, nessuna traccia del testimone-chiave

L.M. - 16 Dicembre 2010
Il testimone avrebbe potuto condurre le autorità di polizia e le organizzazioni internazionali al covo di Rafah, dove sono detenuti i 150 profughi. EveryOne: “Ci auguriamo che le autorità egiziane non siano intervenute contro il ragazzo”
di Redattore Sociale

MILANO. Il testimone-chiave che avrebbe potuto condurre le autorità di polizia e le organizzazioni internazionali al covo di Rafah (nel deserto del Sinai) dove sono detenuti 150 profughi africani non risponde al telefono.

Da tre giorni né don Mussie Zerai, né gli operatori del gruppo EveryOne riescono a mettersi in contatto con lui. “Questo giovane eritreo è stato molto coraggioso – spiega il sacerdote eritreo – è andato nella zona in cui sono detenuti i suoi compatrioti e ci ha dato tutti i dettagli necessari a indicare il luogo. Speriamo che si tratti solo di un problema di linee telefoniche”.

Decisamente preoccupati gli attivisti di EveryOne: il contatto di questo ragazzo, infatti, era stato fornito a un rappresentante delle Nazioni Unite, ai rappresentanti dell’Unhcr al Cairo e, attraverso la denuncia depositata al Procuratore de Il Cairo al Ministero dell’Interno, al Primo Ministro e al Presidente della Repubblica Araba d’Egitto. “Ci auguriamo vivamente che le autorità egiziane non siano intervenute contro il ragazzo in qualche modo, intimidendolo o, peggio, facendo perdere le sua tracce”, commenta Roberto Malini, di EveryOne.
La situazione si fa sempre più tesa. Anche all’indomani delle dichiarazioni del portavoce del ministro degli Esteri egiziano che, attraverso l’agenzia Mena, aveva denunciato la “campagna mediatica” e il fatto che “alcune personalità occidentali” anche religiose hanno reagito a queste storie “come se si trattasse di verità assolute”. Per il Cairo “nessuna informazione è stata trovata a conferma delle notizie circolate sui media”.
Eppure le informazioni raccolte da EveryOne e dall’agenzia Habeshia sono estremamente dettagliate. Secondo quanto riferito, la prigione dei 150 profughi che ancora si trovano a Rafah, è situata in periferia, nei pressi di un edificio governativo circondato da un frutteto, accanto a una grande moschea e a una chiesa trasformata in scuola. “Abbiamo inoltre una lista con nomi, cognomi, luogo e data di nascita di una ventina di profughi, raccolti durante le telefonate”, spiega Roberto Malini.