Dall'emergenza umanitaria all'allarme terrorismo

L.M. - 20 Febbraio 2011
L’anti-bavaglio
la rubrica di Luigi Riccio
RUBRICHE. Sembra un percorso lungo, tortuoso, quello che porta dall’emergenza umanitaria all’allarme terroristico paventato in questi giorni. E invece no: è semplicissimo. Basta separare il significato “manifesto” da quello “latente” delle parole del ministro Maroni ed eccolo lì: chiaro, sibilino.

Partiamo dal significato “manifesto”. Il ministro dell’Interno ha specificato che i migranti salpati nell’ultimo mese a Lampedusa, e quelli ipotetici in arrivo, non sono semplici clandestini ma persone in fuga da un Paese in subbuglio, “collassato”. Persone che, avendo diritto alla protezione internazionale, è impossibile respingere. Ma il problema che si pone, per il ministro, è il seguente: in mezzo ai rifugiati si nascondono detenuti evasi dalle carceri tunisine, dei terroristi. E per evitare che venga loro riconosciuto un qualche tipo di status, è necessaria una ferrea (e lenta, purtroppo) identificazione, che permetta di stabilire chi è chi per scongiurare infiltrazioni terroristiche in Europa.
Arriviamo adesso al significato “latente”. Il ministro, da subito, ha operato la distinzione tra gli immigrati di adesso bisognosi di protezione internazionale e “quelli del passato”. Ma la differenza tra gli immigrati di oggi e quelli di ieri non riguarda gli immigrati in sé, bensì il luogo dal quale salpano. “Non è possibile respingerli (i 5000 arrivati in questo mese, ndr), come si fa per quelli che partono dalle coste libiche, senza la collaborazione della Tunisia” ha affermato Maroni. Qual è la differenza tra i rifugiati che arrivavano dalla Libia (ma che non erano mai libici) e questi? Una: che mentre gli accordi bilaterali Italia-Libia reggevano e reggono, quelli Italia-Tunisia sono -di fatto- sospesi per via del collasso post-rivoluzione. Quindi, senza un Governo con cui collaborare, i respingimenti sono impossibili.
Ma la differenza tra gli immigrati di oggi e quelli di ieri non è così definita. Dalla Libia, partivano soprattutto rifugiati eritrei (in fuga dalla dittatura di Afewerki), somali (dalla fame e dalla guerra civile), sudanesi (dal Darfur, dal Sud Sudan, in cui le persecuzioni non sono mai cessate del tutto) e pure li si rimandava indietro, consapevoli delle torture a cui sarebbero stati destinati nei lager-prigioni libici. L’unica reale differenza è che prima si poteva chiudere un occhio e scacciarli, adesso no (per il momento).
Non potendo issare l’opinione pubblica contro questi migranti, il ministro Maroni spinge sul pedale “terrorismo”. Tra i rifugiati, afferma, ci sono detenuti evasi dalle carceri tunisine, dei terroristi, e per questo richiede la militarizzazione delle strutture (200 militari) in cui risiedono i migranti. Premettendo pure che tra gli evasi non ci siano detenuti politici (la Tunisia era pur sempre una dittatura), questo allarme sembra piuttosto preludere a scelte discrezionali, arbitrarie, con cui far fronte qualora l’intervento dell’UE o della nuova Tunisia non aiuti a smaltire il sovraccarico di rifugiati. E soprattutto, a nascondere la miopia delle strategie (onerose) sul contrasto all’immigrazione clandestina, congeniate come se la Libia fosse l’unica porta per giungere in Italia.
Quindi, rifugiati, sì, ma pure terroristi. Quale alibi migliore, un giorno, per mettere il bavaglio agli obblighi internazionali e difendersi dall’invasione (che già non è più emergenza umanitaria) con metodi rapidi, illegali e concreti?