Il movimento sindacale in Burundi

L.M. - 1 Marzo 2011
Minime africane
la rubrica di Daniele Mezzana, con uno scritto di Valeria Alfieri
AFRICA. Ci sono tante vicende ed esperienze che, se conosciute, favorirebbero una visione molto diversa delle società africane di ieri e di oggi. E’ il caso, ad esempio, dei primi movimenti sindacali in Burundi, alla fine degli anni ‘50 dello scorso secolo. Sollecitata da un breve post di qualche tempo fa, e sulla scia di una approfondita ricerca ancora in corso, Valeria Alfieri ha gentilmente elaborato, su questo argomento, un contributo espressamente per questo blog, che riporto qua sotto, per intero.

E’ un testo di grande interesse, non solo per l’argomento in sé, ma anche per le informazioni che emergono su aspetti come, ad esempio, la modernità, le classi medie, la partecipazione popolare. Valeria è dottoranda in “Studi Africani” presso la Sorbona di Parigi e l’Istituto Universitario di Napoli « L’Orientale ». Chi fosse interessato ad approfondimenti su questo scritto può contattarla qui: valeria.alfieri@hotmail.com.
L’ “emancipazione popolare”: la CSC in Burundi
di Valeria Alfieri
Gli anni immediatamente successivi al secondo dopoguerra sono stati percorsi dall’eco dei diritti umani e delle libertà civili e politiche, che arrivava sino agli imperi coloniali. Fu epoca di grande fioritura dei sindacati, le cui attività erano all’apice dell’attenzione internazionale e delle politiche nazionali. Gli sconvolgimenti nel continente africano alla vigilia delle indipendenze non potevano sfuggire all’accelerazione storica e all’intreccio di dinamiche ed interessi contrastanti. La parola d’ordine era emancipazione; emancipazione dal paternalismo coloniale ed emancipazione dai sistemi di poteri tradizionali. Ma si faceva sempre più strada anche la paura, quella dell’avanzata del comunismo, e della perdita d’influenza sui domini coloniali. Le conseguenze dell’una e dell’altra non avrebbero risparmiato nessun paese africano, e si sarebbero aggiunte e mescolate con le dinamiche storiche proprie delle società africane, alle prese in quegli anni con la formazione e la costruzione dei nuovi stati nazionali indipendenti.
« La popolazione era prigioniera della paura e della sottomissione, della servitù ad un regime feudale. Tuttavia, c’erano dei fremiti, la gente ne aveva abbastanza delle corvées ai capi, delle tasse ai colonizzatori, e c’era qualcuno che cominciava ad alzare la testa. Al mio arrivo c’era stato uno sciopero degli operai della CFL, la compagnia dei trasporti, e gli educatori non diplomati del Ruanda-Urundi cominciavano a riunirsi segretamente al di fuori dei sindacati. Abbiamo allora deciso di prendere in mano la situazione» (1). E’ cosi che Jules Fafchamps, sindacalista della CSC, la Confederazione dei Sindacati Cristiano-democratici belga, arriva nelle colonie belghe dello Zaire e del Ruanda-Urundi nel 1958, per creare dei sindacati indigeni.
All’epoca esistevano sindacati che rappresentavano i funzionari coloniali belgi, dunque creati da e per gli europei. Essi erano stati fondati nel 1948, ma « soltanto nel 1957 fu abolita la barriera del colore, bianchi e neri potevano finalmente far parte dello stesso sindacato ». Nel 1958, dunque, esistevano delle strutture sindacali, ed esistevano “neri” che avevano acquisito un certo “savoir-faire” sindacalista. Si trattava soprattutto di insegnanti ed educatori, di operai e funzionari al servizio delle imprese e delle strutture coloniali, persone che si erano affacciate alla “modernità” occidentale. La CSC nei Grandi Laghi era dunque un sindacato misto, ma la voce degli indigeni era debole: il termine uguaglianza si diffondeva tra le classi istruite, ma il sistema scolastico «trasmetteva il senso della sottomissione necessaria all’impresa coloniale. Gli indigeni avevano imparato ad essere docili». Ed il sistema coloniale, nella sua interezza, trasmetteva una ricostruzione storica dello stato-nazione burundese basata sull’esistenza di due gruppi etnici, gli hutu e i tutsi, identificati rispettivamente con i dominati e i dominanti, quelli nati per servire e quelli nati per governare. Nonostante la “propaganda” coloniale, questa “coscienza etnica” emerge tardivamente rispetto al vicino stato ruandese, e alla fine degli anni ’50 la competizione politica non era ancora stata invasa dall’etnismo, come avverrà invece all’indomani dell’indipendenza. Nell’azione sindacale di quel periodo, il dibattito ruotava intorno alla creazione di sindacati “africani”, «c’erano dei neri che volevano un bianco a capo del sindacato, e dei neri che volevano un nero». La conferenza panafricana di Accra, nel 1958, aveva lanciato l’idea di un raggruppamento sindacale panafricano; la Conferenza di Casablanca del 1961 aveva risposto a tale appello. Due posizioni venivano delineandosi, l’una facente capo al “gruppo Monrovia”, definita “realista e responsabile”, che rivendicava l’integrazione dei sindacati africani in confederazioni “straniere” e che aveva preso posizione contro il riconoscimento del governo provvisorio algerino, e l’altra facente capo al “gruppo Casablanca”, che si definiva “progressista ed anti-imperialista”, proclamava la creazione di una Confederazione sindacale panafricana e rivendicava l’integrazione dell’Algeria nei summit panafricani dei capi di governo. Il “gruppo Monrovia” riteneva prematuro che gli africani prendessero la guida di un sindacato, molti non osavano ancora opporsi apertamente al potere coloniale e a quello dei “patrons”, e consideravano di aver ancora bisogno dell’appoggio degli europei. «Il popolo aveva coscienza dell’ingiustizia e delle inegualità, ma aveva anche coscienza della sua debolezza e della violenza della repressione alla minima mancanza nei confronti delle autorità».
Sebbene Jules Fafchamps fosse arrivato nelle colonie belghe per fondare dei sindacati “africani”, la maggioranza dei militanti sindacali si era espressa tramite un questionario a favore della linea “Monrovia”, cosi la CSC in Burundi rimase un sindacato misto.
I sindacalisti indigeni della CSC facevano parte di una classe media emergente, che non godeva dei privilegi dei grandi chefs o di quelli che erano considerati i grandi intellettuali africani formati per guidare il paese dopo le indipendenze, e non si identificavano più con il mondo contadino che rappresentava la maggioranza della popolazione. Le masse contadine erano quelle che soffrivano di più la miseria e lo sfruttamento; tuttavia esse rappresentavano, con il loro voto, la via d’accesso al potere politico. «La sfida, allora, per la CSC era interessare questa classe media emergente, e i ricchi e gli intellettuali, alle realtà politiche, sociali ed economiche, alle condizioni di vita delle “genti semplici”». Nasce cosi l’idea di creare un sindacato per i lavoratori delle campagne e l’iniziativa di un movimento politico ch

e potesse canalizzare gli interessi “popolari”, « un sindacato libero può esistere e vivere soltanto in un sistema democratico». Il raggiungimento di obiettivi socio-economici passava dunque per la creazione delle condizioni che potessero permettere una pressione politica. Furono cosi create diverse formazioni politiche dette “popolari”, nate sulle colline burundesi dalla trasformazione di associazioni di diverso tipo, che si unirono, nel marzo 1961, nell’UPP (Unione dei Partiti Popolari). Sebbene tali iniziative e l’ideologia che le accompagnava potessero sembrare “importate” dall’Occidente, esse furono abbracciate e sollecitate da un certo numero di militanti sindacali che volevano rompere con il vecchio regime monarchico e con la dominazione coloniale, e che diventarono ferventi repubblicani. In un Paese dominato da una cultura politica monarchica, in cui si riteneva che il re avesse origine divina, esprimere idee repubblicane era considerato un attentato alla monarchia. Un Burundi senza re era impensabile per il “popolo” burundese. L’idea repubblicana, dunque, doveva essere introdotta docilmente. Intorno a questo obiettivo si focalizzava la posizione della CSC sulla questione dell’indipendenza: tutti erano “ufficialmente” d’accordo sulla forma che avrebbe dovuto avere il Burundi indipendente, quella di una monarchia costituzionale, ma i contrasti nascevano intorno ai tempi dell’indipendenza. L’UPP era contrario all’indipendenza immediata, l’idea era che la classe dirigente burundese dell’epoca era composta dalla vecchia classe feudale, che il numero d’intellettuali capaci di guidare il paese era esiguo, e che bisognava anzitutto “formare nuovi uomini politici”, garantendo un accesso all’istruzione uguale per tutte le etnie (2). Sebbene tale convinzione non corrispondesse completamente alla realtà locale, essa rispecchiava la maturità e l’ideologia politica dei militanti dell’ UPP, sindacalisti e non.

Il partito non ottenne la maggioranza alle elezioni legislative del 1961, ma ottenne dei seggi in parlamento. Fu il partito UPRONA ad avere la meglio, e la sua ascesa politica sancì la vittoria della corrente “Casablanca”, dunque: indipendenza immediata sotto la forma di una monarchia costituzionale.
Tuttavia l’influenza dell’UPP cresceva velocemente, e i suoi obiettivi politici minacciavano l’esistenza della classe dirigente di formazione coloniale, già divisa e in competizione per il potere politico. L’azione del sindacato “popolare” andava avanti, così come cominciava a prendere forma una “questione etnica”, a causa soprattutto dell’influenza della rivoluzione sociale in Ruanda e l’afflusso di migliaia di rifugiati tutsi in Burundi, anche se per il momento le divisioni etniche non condizionavano le adesioni dei militanti.
Nel gennaio 1961 la CSC organizza una missione a cui presero parte 10 militanti sindacali del Ruanda e del Burundi; quasi tutti facevano parte di partiti politici. Si trattava di visitare delle opere di sviluppo agricolo e seguire attività di formazione in Belgio, Francia ed Israele, finalizzate alla creazione di cooperative agricole e alla nascita di un Movimento rurale. L’obiettivo era l’emancipazione rurale e la creazione di un movimento nazionale. Bisognava schiudere le identità ed i raggruppamenti collinari e di quartiere, a favore di un movimento più vasto di concertazione e coscientizzazione contadina; bisogna interessare la borghesia ai problemi rurali e interessare le masse contadine alle questioni politiche. La lotta era contro la monarchia, contro i “signori feudali”, e contro i comunisti; era per la repubblica, la democrazia, e uno stato social-democratico. Si pensava, infatti, che il principale partito d’opposizione all’UPP, l’UPRONA, potesse ben presto diventare un vero e proprio satellite comunista: si vociferava dei contatti che alcuni leaders di questo partito nutrivano con il partito comunista cinese. Interessi locali e internazionali erano dunque mescolati; alle manipolazioni esterne si aggiungevano dinamiche evolutive interne di matrice sia socio-economica che politica. Al tempo stesso, le competizioni interne per la leadership, le lotte d’influenza, non mancarono di lasciare il loro marchio sull’evoluzione del sindacato e del movimento politico.
Poco tempo dopo il ritorno della delegazione in Burundi, e all’indomani dell’assassinio del leader dell’UPRONA, Louis Rwagasore, un gruppo di estremisti della JRR (Jeunesse Revolutionnaire Rwagasore) massacrarono a morte, nel gennaio 1962, alcuni sindacalisti membri dell’UPP. Il massacro avvenne in pieno giorno, fu una vera e propria caccia all’uomo. Le vittime note erano tutte di etnia hutu, ma da qualche testimonianza è emerso che massacri e arresti arbitrari si fossero susseguiti anche in altre province del paese e che, probabilmente, tra le vittime ci fossero stati militanti di etnia tutsi. Ad ogni modo, questo episodio, noto come “incidente di Kamenge” è considerato da molti burundesi, e da alcuni esperti della regione, come la miccia che ha acceso l’antagonismo etnico e che ha provocato l’etnicizzazione della vita politica. In realtà, l’azione dei sindacalisti e il loro assassinio sembrano essere più la conseguenza di un tentativo di politicizzazione e di “emancipazione popolare”, e dunque della competizione per il potere, che spaventava i dirigenti dell’epoca, che non l’espressione di una lotta etnica. L’appoggio del partito comunista cinese ai giovani della JRR inoltre, non è da sottovalutare. In più si trattava di uomini politici che riuscivano con sempre più difficoltà a nascondere la loro orientazione politica repubblicana, contro un UPRONA monarchico. Non è un caso che l’incidente di Kamenge sia avvenuto poco tempo dopo l’assassinio di Rwagasore, che oltre ad essere il leader dell’UPRONA era anche e soprattutto figlio del Re Mwambutsa. I privilegi monarchici, e l’orientamento “progressista e rivoluzionario” mal si conciliavano con gli ideali ed i valori di sindacalisti cristiano-democratici e militanti repubblicani.
Il timore suscitato dalla possibile ascesa dell’UPP, e dalla politicizzazione della popolazione rurale, era reale, e si sarebbe manifestato con forza in occasione delle elezioni legislative del 1965. Negli archivi burundesi è possibile reperire lettere e comunicati facenti riferimento alla necessità di “depoliticizzare le masse”, disinteressarle alla politica, assorbendole nel lavoro dei campi. Il duro lavoro nei campi viene eretto a valore di ogni vero uomo, un vero uomo deve poter pagare le tasse, la politica distoglieva da tutto ciò. E il lavoro nei campi doveva essere soprattutto quello volto allo sviluppo delle esportazioni.
Nonostante il fatto che i quadri dirigenti del partito fosse stati eliminati nel 1962, il PP (Partito Popolare), la formazione più influente dell’UPP, riportò 10 seggi contro i 21 dell’UPRONA. E un’ala dell’UPRONA si era nettamente schierata a favore dell’ideologia del PP. Praticamente i “fedeli” del PP erano maggioritari in Parlamento. Il movimento aveva continuato la sua azione politica e sindacale a partire dal 1962 con discrezione, e disponeva dunque di un numero crescente di militanti. Era ben lontano, allora, dall’essere un partito esportato o di facciata, ma aveva una presa reale nel Paese. La sua ascesa colse tutti di sorpresa, e l’anno 1965, con il tentativo di colpo di stato contro la monarchia, l’esecuzione e l’assassinio di numerosi leaders d’etnia hutu, la ribellione repressa nel sangue nella provincia

di Muramvya, segnano la fine della breve ma innegabile esperienza democratica della società burundese.

Gli eventi che seguirono furono tragici e sanguinosi, provocarono migliaia di morti e milioni di rifugiati e sfollati, ma le attuali evoluzioni socio-politiche in questo piccolo Paese mostrano tutta la forza di una maturità politica spesso sottovalutata dagli osservatori internazionali.
Valeria Alfieri
NOTE
1 Intervista a Jules Fafchamps, sindacalista della CSC, maggio 2009 e febbraio 2010. Fu tra i primi sindacalisti a recarsi nei territori del Congo belga e del Ruanda-Urundi per fondare dei sindacati africani. Tutte le espressioni riportate tra virgolette in questo testo, sono tratte da interviste da lui rilasciate in tempi diversi.

2 Il sistema coloniale aveva, effettivamente, facilitato l’accesso all’istruzione ed alle più alte cariche amministrative di esponenti dell’etnia tutsi. Sebbene le divisioni etniche non rappresentassero ancora una “questione” per i burundesi, i membri dell’UPP furono tuttavia tra i primi a sollevare e indicare l’esistenza di discriminazioni, spinti probabilmente dall’influenza dei sindacalisti belgi e di quelli ruandesi che avrebbero dato vita, in Ruanda, al Parmehutu, e da cui uscirono leaders come Kayibanda. Tuttavia all’epoca le adesioni tanto al sindacato che all’UPP non erano influenzate dall’etnia, la “questione etnica” emerse tardivamente rispetto al vicino Ruanda.

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