Lettera a Farid Adli

L.M. - 25 Marzo 2011
Risposta ad una lettera firmata da Farid Adli su Il Manifesto del 21-03-2011 con il titolo “Dalla Libia arriva un grido di libertà”. Chi non l’ha letta la può trovare qui sotto la mia risposta
di Karim Metref, con una lettera di Farid Adli, pubblicata su Il Manifesto
LA RISPOSTA. Caro fratello, ti scrivo innanzitutto per dirti che condivido fortemente il tuo dolore e la tua ansia per i tuoi cari, per il tuo popolo.

Lo condivido nel modo in cui, forse, solo chi ha vissuto momenti simili e conosce l’entità e l’intensità di quella angoscia e di quel dolore, può condividere. I nostri padri hanno combattuto per l’indipendenza e noi da quando siamo nati combattiamo per un minimo di vita dignitosa, un minimo di libertà. Qualche volta sono quasi sicuro di morire prima di vederla questa vita dignitosa, questa libertà. Ma siccome la speranza è l’ultima a morire, continuiamo a sperare se non per noi almeno per i nostri figli.
La tua lettera al manifesto mi ha toccato profondamente. Ti ho riconosciuto e ho riconosciuto l’uomo onesto, coraggioso e nello stesso tempo rispettoso degli altri, quale sei. Condivido interamente le tue critiche ai “compagni” che continuano a dire che i nostri dittatori sono “anti-imperialisti”. Se ti può consolare, si è trovato anche qualche “compagno”, anzi un “campo” di “compagni anti imperialisti” per andare in Algeria alla “Festa della gioventù del 2001” e dichiarare che Bouteflika è un autentico rivoluzionario. Mentre i giovani insorti della Cabilia di quelli anni sono stati descritti come agenti dell’imperialismo.
Ora di Bouteflika, tutto si può dire tranne che è un anti-imperialista. Il nostro uomo è arrivato al potere spinto dall’esterno. Anche se era tra i golpisti del 1965 e ha esercitato come ministro degli esteri dal 1965 al 1979, nel 1999, quando è ritornato, la gente l’aveva completamente dimenticato. È solo grazie all’appoggio degli Stati Uniti, e l’accordo tacito delle altre potenze che è salito sulla poltrona. Aveva tra i suoi bagagli anche il candidato designato per il ministero dell’energia: Chakib Khellil, grande amico delle multinazionali del petrolio e della banca mondiale. Missione: consegnare le risorse energetiche del paese in mano alle multinazionali. Missione compiuta con grande rigore e destrezza.
Sì, è così. Molti nostri compagni italiani continuano a vedere in questi mostri dei rivoluzionari, ma forse è anche perché buona parte dei nostri compagni di là si sono fatti comprare generosamente e continuano a mandare messaggi distorti ai loro amici di quà. Pensa un po’ a tutta l’area trotzkista che come riferimento in Algeria ha il PT di Louisa Hannoun, che tutti in Algeria chiamano ormai Louisa Qahnoun, perché da 10 anni non ha fatto altro che prostituirsi politicamente con Bouteflika e il suo regime. Oppure tutta quella area del femminismo italiano che continua a vedere in Khalida Messaoudi “Una donna in piedi”. Quando questa donna, in piedi, se lo è mai veramente stata oltre che sui media francesi e nell’immaginario occidentale, ormai non lo è più. La Khalida è la portavoce più fedele di questo governo che quando non opprime direttamente le donne, le abbandona indifese in preda ad una società maschilista che trova in loro un capro espiatorio per tutte le sue frustrazioni.
Capisco benissimo questo tuo stupore e questa tua rabbia nei confronti di chi afferma queste cose. Un’amica che ritornava, qualche anno fa, dalla Libia e davanti al mio stupore per la sua dichiarata ammirazione per il Colonnello, mi disse, con uno sguardo e un sorriso un po’ malizioso: “ Ma sai… in fin dei conti gli arabi hanno sempre bisogno di una figura forte. No?”. Quel sorriso, quello sguardo un po’ malizioso, un po’ compiacente, l’ho visto anche sulle facce di alcuni amici francesi, qualche mese fa. Stavamo parlando di questa moda di figure bonapartiste che si sta diffondendo in America latina; un compagno del Partito dei Lavoratori iracheno disse: «Sapete anche a noi così a primo impatto ci sembrano simpatici. Peccato che è un film che abbiamo già visto e sappiamo come finisce». Ed a questo punto che venne il sorrisetto e lo sguardo un po’ compiacente un po’ malizioso: “in fondo in fondo voi arabi e anche i latino americani…”.
Capisco tutto questo e ne soffro quanto te. Ma non credo che oggi la questione più importante sia di quella minoranza di smarriti che continua a dichiarare che Gheddafi sia anti-imperialista. La questione è quella di quale futuro per la Libia, per la regione, per il mondo? Non condivido del tutto il tuo entusiasmo per questa opposizione. Sono convinto che ciò che dici è in parte vero e che non mancano donne e uomini sinceri in questa sollevazione di popolo. Ma la situazione è anche troppo torbida e si sono visti troppi voltagabbana improvvisi perché sia del tutto credibile. Io non firmo mai assegni in bianco. Soprattutto non a chi ha un mitra un mano. I nostri padri lo hanno fatto per i liberatori, o presunti tali, e oggi il risultato ce l’abbiamo sotto gli occhi, tutti quanti.
Ma se non firmo assegni in bianco a nessuno non vuol dire che non ammiro quello che stanno facendo i giovani nei nostri paesi. Questa generazione è stata capace di quello che la nostra non ha osato. E di questo bisogna essergli riconoscente. Ma per il resto preferisco aspettare di vederci meglio. Forse chi come te ha una visione più ravvicinata della situazione ci deve aiutare a separare il grano dal loglio. A capire quali forze compongono veramente questa coalizione e quali sono da sostenere, quali da tenere sott’occhio perché non troppo chiari, o sicuramente collusi con le forze estere che vogliono mettere mano sulla Libia…
L’altro punto che non ci hai chiarito. E questo è, secondo me, il più importante in questo momento, è la tua posizione rispetto all’intervento militare di questa “coalizione dei volenterosi”(rapaci – ndr). Non dico che tu sei pro ma non ti sei nemmeno schierato contro. E buona parte di questa opposizione di cui ci parli ha salutato questo intervento militare . Ma tu… Ci inviti in qualche modo a considerare questo intervento come un male necessario?
Capisco che quando uno annega ha bisogno di aiuto. E bisogna dire che la rivolta libica stava annegando. Qualcosa per salvare le vite di centinaia di migliaia di civili doveva farsi. Ma tra il non fare nulla e la follia guerriera che si è impossessata delle forze alleate due ore dopo aver ottenuto la risoluzione dell’Onu, c’è un divario enorme.
I paesi della Nato passano il loro tempo ad armare tiranni amici, che poi dichiarano nemici, per giocare a distruggere poi paesi interi. Per il controllo delle risorse, per poter piazzare le loro benedette basi militari, per spartirsi il business della ricostruzione, per dividerci sempre di più su base etnica e per riconfermare alla testa dei nostri paesi delle dir

igenze corrotte quanto quelle che hanno abbattuto poco prima o di più se possibile…

E noi passiamo il nostro tempo a considerare l’occidente colpevole di tutti i nostri mali e poi appena siamo in pericolo crediamo che potrebbe venirci in aiuto solo per la bellezza dei nostri occhi.
Caro Farid, io mi ricordo che tu non hai mai ingoiato la storia della guerra umanitaria in Iraq o in Afghanistan. Noi, oggi, dobbiamo accettare che Sarkozy, che sostiene in tutta l’Africa fior fiore di dittatori corrotti e violenti, e che poche ore prima della fuga di Benalì gli proponeva la sua Legione Straniera come rinforzo per reprimere la protesta dei giovani, sia stato preso da un raptus umanitario e sia impazzito per paura per la sorte dei civili della Cirenaica? È possibile cerdere che Cameron e Obama che chiudono gli occhi di fronte a tutti i massacri israeliani in Libano, a Gaza considerino oggi la salvezza dei bambini di Bengasi decisiva per il futuro della specie umana? È possibile che tutti quelli che guardano altrove mentre il Bahrein, l’Arabia Saudita stanno reprimendo duramente le richieste di democrazia nel golfo persico, siano così premurosi per l’avvento della democrazia in Libia?
Io credo caro fratello che non si combatte il male con il male. Qualcosa andava fatto? Sicuramente! Ma le vie per farlo questo qualcosa erano tante. Non è stato esplorato un centesimo delle possibilità che si trovano tra il non fare nulla e il buttarsi nella mischia dando botte da orbi: la diplomazia, la trattativa, il dialogo, la pressione politica, l’interposizione, l’embargo mirato, l’istituzione di una nofly-nodrive zone, Il supporto aereo alle posizioni dei ribelli senza bombardamento sulle posizioni delle forze del regime, e soprattutto senza bombardare le città… e ce ne saranno altre decine di possibilità che non mi vengono in mente.
Io credo, caro fratello, che chi ha le mani sporche del sangue di milioni di innocenti non può intervenire perché ha a cuore la vita di altri innocenti. Credo che noi siamo piccoli e contiamo poco sullo scacchiere, ma possiamo almeno non arrenderci alla logica del più forte e non scegliere tra i nostri oppressori.
Questo dilemma l’ho già vissuto in Algeria, quando dovevo scegliere tra i generali che mi opprimevano da sempre e gli integralisti dei GIA che volevano opprimermi ancora di più. Io non ho scelto né l’uno né l’altro. Molti “compagni” hanno scelto di rifugiarsi sotto l’ala protettrice dei generali. Io li capisco molto bene. Soprattutto quelli delle zone più “calde”. Non è facile stare in mezzo. Pochi sono sopravvissuti tra quelli che hanno scelto di non schierarsi. Mi ricordo, in quelli anni scrivevo una lettera ad alcuni amici all’estero. La Nato aveva appena bombardato la Serbia. Era, anche quella volta lì, per salvare i Civili Bosniaci. In Cabilia, che come La Cirenaica, è sempre stata ribelle e che in quei momenti cercava di rimanere non schierata né con i militari né con i barbuti, si temeva una rappresaglia forte. «Cari fratelli – scrissi in quella lettera – se domani il governo algerino decide di massacrarci in Cabilia, e anche se quel giorno io, per rabbia o per paura, affermerò il contrario, non accettate mai che venga bombardata Algeri. Mai!» Spero che tu, in qualche modo, sia di questo parere.
L’unica mia speranza è che i giovani libici sapranno trovare, dopo la caduta di Gheddafi, anche il modo di disfarsi di chi arriverà con la tessera da oppositore ottenuta all’estero, forse negli uffici di Langley, forse al Quai d’Orsay o negli studi della Bbc o di Al-jazira. Devo dire però, che vedendo come i ragazzi egiziani e tunisini sono tenaci e non si fanno prendere in giro tanto facilmente, che qualche buona speranza. Dipenderà anche da noi e dal sostegno che sapremo far arrivare alle forze vere del cambiamento, sia in Libia che in Egitto e Tunisia e ovunque esse siano in azione.
Un caloroso abbraccio
Karim Metref
Qui di seguito la lettera di Farid Adli apparsa su Il Manifesto del 21-03-2011
Dalla Libia arriva un grido di libertà
di Farid Adli
Cari lettori, continuate ad abbonarvi al manifesto! Cari compagni del manifesto, redattori e lettori, non sono d’accordo con voi su alcune posizioni, ma continuo a leggere e difendere (per quel poco che posso fare) Il Manifesto. Le riflessioni che sono state avanzate da Rossanda, Castellina, Parlato e Di Francesco sono sacrosante, ma difettano in un punto: non inquadrano la questione libica nel suo contesto storico.
Sarebbe un dibattito avanzato e profondo su dubbi e zone d’ombra, se non ci fosse in corso una tragedia di un popolo che viene ucciso ogni giorno, nelle piazze delle città libiche e nelle piazze d’affari del mondo industrializzato. La frase del compagno Parlato «Sono e resto un convinto estimatore del colonnello Gheddafi» (Il Sole-24 Ore del 18/2/2011, poi ribadita sulle pagine del manifesto dieci giorni dopo) fa molto male a chi – come me – ha perso la propria libertà a causa del tiranno. Quanti articoli sul manifesto ho dovuto firmare diversamente, per scongiurare una repressione contro i miei familiari.
Prima di tutto, quella in corso non è una guerra civile; lo potrà diventare in futuro, ma adesso è una resistenza popolare contro un tiranno, la sua famiglia, i miliziani e mercenari. È paragonabile alla resistenza italiana contro il fascismo mussoliniano.
La questione della bandiera issata sulle zone liberate, avanzata da Manlio Dinucci, quella dell’indipendenza, non è un sintomo di ritorno al passato. Quella bandiera non è certo proprietà dell’ex re Idriss o della confraternita senussita. (A proposito, non ho capito il riferimento del compagno Parlato all’asserito antisemitismo di Idriss. Essere anti-sionisti non è necessariamente antisemitismo. Vi ricordo che prima dell’occupazione della Palestina, tra i vari progetti per creare Israele, nella prima metà del Novecento, la Cirenaica era uno dei luoghi proposti. Essere contrari a quei propositi non è certo antisemitismo). Io avrei usato la bandiera rossa, ma io e la mia generazione non contiamo nulla in questa rivoluzione. La corrente monarchica nell’opposizione è assolutamente minoritaria e lo sbandierare di quel tricolore, con stella e mezzaluna in bianco, non è un attaccamento al passato ma un chiaro rifiuto del regime. Fondare su questo una critica ai giovani libici che hanno affrontato a petto nudo le mitragliatrici anti-carro dei miliziani e mercenari di Gheddafi, è di una ingenerosità disarmante. Non si nega qui l’esistenza di piani internazionali per mettere le mani sul petrolio della Libia, ma la rivoluzione libica del 17 Febbraio 2011 non è guidata da fantocci dell’imperialismo, bensì da giovani e democratici che hanno una storia nel paese. La caduta del muro della paura, dopo le esperienze di Tunisia e Egitto, li ha portati ad alzare la testa contro la tirannia. Se non mettiamo al centro dell’attenzione questo grido di libertà, che nasce dal basso, non capiremmo nulla dai moti di rivolta che stanno caratterizzando la lotta dei paesi arabi contro le cariatidi al potere da troppi anni.
La seconda questione riguarda il Gheddafi socialista. Le tesi sul cosiddetto socialismo arabo hanno imperversato negli anni Cinquanta e Sessanta, al momento
del riscatto nasserian-baathista di Egitto e Iraq. Interessanti esperienze di borghesia nazionale del sud del mondo, che sono state, solo per necessità, anti-imperialiste nella prima fase del loro sviluppo. In Iraq, Egitto e Siria di quegli anni i comunisti e i socialisti sinceri sono stati perseguitati e repressi. Quelle esperienze di colpi di stato hanno dato molti frutti positivi sul piano sociale, ma solo nella prima fase del loro sviluppo. La tendenza verticistica e la mancanza di una legittimità democratica, da una parte, e l’attacco dei paesi occidentali alleati di Israele dall’altro (guerra di Suez nel 1956 e quella del 5 giugno 1967) hanno reso questi nuovi regimi delle oligarchie militari che nulla hanno a che fare con l’idea di una giusta distribuzione della ricchezza nazionale e dello sviluppo sociale e culturale dell’essere umano, base di ogni esperienza socialista.
Gheddafi arriva dopo, nel 1969. La «spinta propulsiva» del golpe militare contro il vecchio re Idriss, per dirla con Berlinguer, è finita molto presto. Già nel 1973 della rivoluzione degli ufficiali liberi non c’era più nulla, se non la spietata repressione di ogni dissenso. Le forche all’Università, l’allontanamento dei compagni d’armi, la cancellazione di ogni forma d’opposizione, il divieto dei sindacati, l’annullamento di ogni azione indipendente della società civile, l’uccisione degli oppositori all’estero (l’Italia è stata un teatro prediletto per azioni terroristiche) e le operazioni militari contro civili che protestavano pacificamente contro le volontà del tiranno (anni ’80 e ’90 a Derna e Bengasi…), il massacro di Abu Selim (26 giugno 1996), sono esempi di questo dominio di una nuova classe dirigente che si è ridotta di fatto alla famiglia di Gheddafi e a una piccola cerchia di suoi seguaci.
La corruzione imperante e il dominio totale dei servizi segreti sulla vita quotidiana dei cittadini sono alla base di un regime che ha sperperato le ricchezze del paese non per costruire una Libia moderna capace di creare occupazione e prosperità per il popolo, ma per comperare le coscienze, conquistare l’appoggio di altri dittatori, in impossibili e perdenti guerre africane (Uganda, Ciad…) e nel lusso per i suoi figli e adepti. La Libia è un paese ricco, ma i libici sono poveri. Un impiegato prende l’equivalente di 170 dollari al mese, mentre uno degli stolti figli del tiranno ha speso due milioni di dollari per uno spettacolo, durato solo un’ora, di una cantante americana, Beyoncé, in una discoteca di Las Vegas.
Del socialismo gheddafiano, i libici hanno un ricordo sbiadito dei supermercati vuoti dalle mercanzie e della noiosa e stupida burocrazia corrotta, simile a quello che hanno ereditato le giovani generazioni dell’est europeo. E non tutto era anticomunismo.
Non credo che Gheddafi rappresenti una continuazione dell’esperienza non allineata di Nasser. Castellina fa bene a ricordare l’importanza di quell’idea, peraltro ridotta al silenzio dalla spietata aggressione imperialista, di rifiuto di schierarsi per forza con uno dei due patti militari in cui era diviso il mondo del secondo dopoguerra. Nasser è morto povero e suo figlio non ha ereditato nessun ruolo politico. Qui invece abbiamo la ricchezza petrolifera del paese considerata come proprietà privata della famiglia e il potere jamahiriano ridotto a una ridicola monarchia. Considerare Gheddafi come parte di quel mondo che si è incamminato nel solco del nobile esperimento dei «Non Allineati» è stato un errore di valutazione della compagna Castellina.
Non bastano le belle intenzioni del colonnello! Quel che conta nella politica è l’azione. Anch’io, come molti giovani libici di allora, ho occupato il Consolato libico a Milano e ho distrutto la gigantografia di re Idriss. Ma già nel 1973, l’Unione generale degli studenti libici che guidavo, ha occupato l’ambasciata libica a Roma, per protesta contro l’impiccagione nell’atrio dell’Università di Bengasi (per di più senza processo) degli studenti che chiedevano libertà e rappresentanza.
La sinistra libica è stata cancellata con uccisioni e detenzioni e in alcuni casi con la compravendita delle coscienze, nel più totale silenzio. È stata anche colpa nostra, perché non siamo stati capaci di comunicare e tessere relazioni e abbiamo vissuto l’azione di opposizione in forme organizzative frammentarie. Ma non si può dare a Gheddafi la patente di rappresentante di un’idea di socialismo. Gli errori di questo tiranno non si limitano agli ultimi dieci anni, come sostiene il compagno Parlato (Il Manifesto, 27 febbraio), ma risalgono a ben più lontano.
Gheddafi ha sbandierato il vessillo dell’anti-imperialismo e dell’anti-colonialismo, ma sotto il tavolo ha barattato la propria salvezza personale con accordi che hanno aperto la Libia al saccheggio dei paesi ricchi. Siamo consapevoli che il petrolio fa gola a molti. E per questo siamo contrari a ogni intervento militare esterno. L’opposizione ha chiesto una «No Fly Zone» per impedire l’uso dell’aeronautica da parte del colonnello (come sta avvenendo in queste ore su Brega e Ajdabieh).
Gli uomini che formano il governo provvisorio di salute pubblica sono persone che conosco personalmente e sono serie e fidate. Non sono secessionisti né fondamentalisti. La matrice democratica che li spinge a ribellarsi agli ordini del tiranno è fuori discussione. Non dar loro ascolto, sarebbe un grave errore da parte della sinistra italiana e dell’Italia democratica tutta.
Infine, l’autolesionismo. Perseverare nell’errore sarebbe il peggio. Il giudizio positivo che si dava di alcune esperienze dei paesi dell’emisfero sud non vieta la possibilità di una revisione critica. Come avvenne per la critica dei paesi del socialismo reale dell’est europeo, anche oggi è possibile prendere atto della fine di un’illusione. Il giudizio di allora aveva le sue ragioni contingenti e di contesto. La situazione attuale è un’altra. E va riconosciuta per quel che è. Non credo sia lungimirante cospargerci il capo di cenere per gli errori di valutazione e analisi del passato. Ricordiamoci che Mussolini era stato socialista e che Giuliano Ferrara era comunista.
Anche nel ricordo e per monito di quelle sconfitte, cari lettori, continuate a comperare Il Manifesto, strumento indispensabile per informarsi e discutere del mondo di oggi!
* Farid Adli, con lo pseudonimo Abi Elkafi, ha scritto su Il Manifesto molte cronache della rivolta libica