La rivoluzione in Egitto partita da un blogger di Al Jazeera

L.M. - 1 Maggio 2011

Ahmad Ashour, fondatore della community di volontari attivisti rivela chi ha dato il via al movimento “Siamo tutti Khaled Said” che ha indetto su Facebook la prima manifestazione il 25 gennaio

di Raffaella Cosentino, Redattore Sociale

EGITTO. La rivoluzione in Egitto è partita da un blogger di Al Jazeera Talk. Si chiama Abdul Rahman, ha 24 anni ed è stato lui a creare il gruppo facebook “Siamo tutti Khaled Sa’id” da cui è stata lanciata la prima manifestazione del 25 gennaio scorso.

Il gruppo prendeva il nome da Khaled Muhammad Sa’id, torturato e ucciso a giugno del 2010 dalle forze di sicurezza interne, nella regione di Sidi Jabir. A rivelarlo è Ahmad Ashour, fondatore della community di blogger di Al Jazeera che recentemente è stato in Italia per partecipare al Festival Internazionale del giornalismo di Perugia. “L’abbiamo nascosto per proteggerlo – spiega Ashour – perché lui in quel momento stava facendo il servizio militare, ma oggi è uno degli esponenti del movimento che fa le trattative con l’esercito”. Al Jazeera Talk è un’invenzione di Ashour e raggruppa 300 blogger – corrispondenti volontari, sulla base di una rete di ‘citizen journalism’. Gli attivisti digitali hanno tutti tra i 18 e i 35 anni e sono sparsi per tutto il mondo arabo. Tra loro anche un giovane marocchino che vive a Milano. Dopo l’incontro di Perugia, Ashour ha aperto un gruppo facebook dedicato ai giovani blogger italiani che in quell’occasione hanno manifestato interesse per l’iniziativa.

“Al Jazeera talk è nata nel 2007, è una community di volontari – continua Ashour, studente d’arte e blogger – non siamo assunti e siamo liberi, non abbiamo una linea editoriale, ‘any borders’ è il nostro motto”. Prima delle rivolte in Tunisia e in Egitto, erano i blogger a seguire Al Jazeera. “Ma noi siamo diventati parte delle rivoluzioni – afferma il giovane – Al Jazeera si è servita di noi per avere le notizie, è stata l’emittente a seguire noi blogger”. Informazioni che arrivavano direttamente dall’interno del movimento, come dimostra il coinvolgimento di Abdul Rahman nel dare il via alle proteste di piazza. Ashour racconta che durante le rivoluzioni gli hanno dato una postazione in redazione e che quando ha trovato le prime notizie attraverso la rete i giornalisti erano diffidenti. “Il redattore mi ha chiesto: questa chi te l’ha data? Ho risposto: un attivista. E lui l’ha messa da parte. Un’ora dopo l’agenzia Reuters confermava quel fatto. Da allora ci hanno creduto” dice Ashour. Secondo lui il futuro non è la tv o internet, ma i media interattivi perché “le persone vogliono produrre informazioni e condividerle”. E’ la religione dei media ‘own generated’. “Gli unici liberi perché nessuno ci mette i soldi” sostiene Ashour. Nel caso di Al Jazeera Talk l’accordo con l’emittente satellitare è che i blogger possano usare il logo della tv e che Al Jazeera fornisca un training professionale. “Qualcuno dei nostri blogger è stato preso a lavorare, ora siamo in 5 nella direzione della community” spiega il fondatore.
Sulle prime rivoluzioni dell’era informatica, secondo Ashour, “Facebook ha dimostrato di essere il mezzo non l’obiettivo, bisogna passare dalla mobilitazione virtuale a quella reale, usare la mentalità di Facebook. Quando internet è stato bloccato dal regime, in piazza Tahrir la gente si scambiava i bigliettini come fossero post di Facebook”. Ma il social network è stato decisivo per fare da miccia alla protesta. Come in Tunisia con l’icona di Mohamed Bouazizi, anche l’Egitto ha avuto il suo martire. Si tratta di Khaled Said, un egiziano di 28 anni originario della città costiera di Alessandria sarebbe stato torturato fino alla morte per mano di due poliziotti che volevano perquisirlo in base a quanto consente la legge d’emergenza. Mentre Khaled chiedeva la motivazione o l’esibizione di un mandato, gli agenti l’hanno ucciso.
“La vicenda è inizata il 7 giugno 2010, quando Khaled Saeed si è recato al suo abituale Internet cafè a Sidigaber – si legge sul gruppo fb – Poi, due poliziotti si sono improvvisamente introdotti nel cafè chiedendo ai presenti un documento di riconoscimento; ciò è totalmente al di fuori dei loro diritti e per giunta non avevano alcuna autorizzazione legale. Il ragazzo – Khaled – ha rifiutato quel trattamento disumano e per questo è stato aggredito violentemente. L’hanno riempito di calci al petto e al ventre, e gli hanno fracassato il cranio sbattendolo contro un ripiano di marmo davanti a tutte le persone e i testimoni presenti nel cafè, mentre Khaled sanguinava. Poi quei poliziotti inferociti hanno sequestrato Khaled, costringendolo a salire con la forza su un veicolo della polizia per continuare a essere torturato fino alla morte in una stazione di polizia. Alla fine, il suo corpo è stato gettato per strada per simulare un’aggressione di sconosciuti ed evitare responsabilità nell’accaduto. Khaled non è e non sarà l’unico caso; infatti ci sono state molte persone che hanno avuto la stessa sorte, scomparendo per poi essere trovate senza vita.
Tutto ciò è il risultato del sistema oppressivo e di controllo introdotto da Mubarak con la legge d’emergenza, la quale permette alla polizia di trattare i cittadini come schiavi. Per questo, noi come gruppo per il cambiamento in Egitto ti esortiamo a protestare e costringere le autorità ad investigare e spiegare pubblicamente quel che è accaduto, condannandolo con forza”. Iniziava così già l’estate scorsa il tam tam su internet che avrebbe portato alla fine dell’ultimo faraone.