Gli effetti della “Direttiva rimpatri” sulla normativa italiana in tema di immigrazione

L.M. - 27 Giugno 2011
Gli effetti della Direttiva rimpatri sulla normativa italiana in tema di immigrazione
APPROFONDIMENTI. La pubblicazione del Decreto-legge n. 89 del 23 Giugno 2011, intitolato “Disposizioni urgenti per il completamento dell’attuazione della direttiva 2004/38/CE sulla libera circolazione dei cittadini comunitari e per il recepimento della direttiva 2008/115/CE sul rimpatrio dei cittadini di Paesi terzi irregolari”, offre l’occasione per ripercorrere gli effetti della Direttiva in questione, al fine di meglio comprendere la necessità e l’urgenza di questo atto del Governo, il quale potrebbe divenire legge dello Stato qualora venisse convertito dal Parlamento entro 60 giorni.
Il meccanismo di allontanamento degli stranieri irregolari imposto sin dal 2002 dal Testo Unico sull’immigrazione (D. Lgs. n. 286/1998, così come modificato dalla legge “Bossi-Fini”) prevedeva che, non appena venisse accertata la presenza irregolare di uno straniero extra-UE sul territorio italiano, nei suoi confronti venisse emanato un decreto di espulsione dal Prefetto, la cui esecuzione era poi affidata al Questore.
Nella maggior parte di casi, nell’impossibilità di disporre un accompagnamento coattivo alla frontiera o il trattenimento dello straniero presso un C.I.E., a questi veniva notificato un ordine di allontanamento emanato dal Questore, nel quale gli si concedevano cinque giorni per lasciare il territorio nazionale. Se lo straniero non obbediva a quest’ordine, doveva essere arrestato (obbligatoriamente se era entrato nello Stato eludendo i controlli di frontiera, facoltativamente se era entrato legalmente e poi non aveva chiesto o rinnovato il permesso di soggiorno); era quindi processato per il delitto di cui all’art. 14 comma 5 ter (salvo che potesse dimostrare di avere  “giustificato motivo” per trattenersi sul territorio…), e condannato ad una pena che poteva andare da uno fino a quattro anni di reclusione in carcere. Dopo la condanna, era avviato un nuovo procedimento di espulsione, la cui eventuale inottemperanza comportava un nuovo arresto e una nuova condanna penale, più grave.
Allo stesso modo, uno straniero era processato e condannato se rientrava nel territorio dello Stato prima che fossero passati dieci anni dalla data dell’espulsione (durante questo periodo, l’espulso non poteva quindi rientrare legalmente in Italia)…
Tutta questa normativa operava in modo quasi automatico, senza lasciare spazio ad un eventuale allontanamento volontario dell’immigrato irregolare
Il 16 dicembre 2008, l’Unione Europea emana la Direttiva n. 2008/115/CE, nota come “Direttiva rimpatri”. Lo Stato italiano avrebbe dovuto recepire la Direttiva nell’ordinamento interno entro il 24 dicembre 2010.
La Direttiva rimpatri contiene una serie di disposizioni, volte a realizzare un effettivo allontanamento dei cittadini extra-UE presenti in situazione irregolare.
La procedura di allontanamento dell’immigrato irregolare prevista dalla direttiva ha un andamento “progressivo”.
La decisione di rimpatrio deve di norma fissare «per la partenza volontaria un periodo congruo di durata compresa tra sette e trenta giorni» allo straniero potranno tuttavia “essere imposti obblighi diretti a evitare il rischio di fuga”.
Se l’interessato non sia partito volontariamente, si possono adottare misure di allontanamento, che possono assumere un carattere coercitivo se lo straniero opponga resistenza. Esse dovranno, però, rispettare il «principio di proporzionalità», e non eccedere «un uso ragionevole della forza», «in osservanza dei diritti fondamentali e nel debito rispetto della dignità e dell’integrità fisica» dello straniero.
L’esecuzione forzata dell’allontanamento può avvenire sin dall’inizio, solo quando «sussista un rischio di fuga, o se una domanda di soggiorno regolare è stata respinta in quanto manifestamente infondata o fraudolenta o se l’interessato costituisce un pericolo per l’ordine pubblico, la pubblica sicurezza o la sicurezza nazionale».
Se lo straniero non provveda alla partenza volontaria nel termine, e non sia possibile eseguire l’allontanamento coattivo, è possibile disporre il trattenimento allo scopo di «preparare il rimpatrio e/o effettuare l’allontanamento».
Il trattenimento è legittimo soltanto quando nel caso concreto non «possono essere efficacemente applicate altre misure sufficienti ma meno coercitive» .
In ogni caso, il divieto di reingresso nel territorio dell’Unione è di 5 anni (e non 10, come prevede la Bossi-Fini)
Infine, gli Stati membri possono decidere di non applicare la Direttiva ai cittadini di paesi terzi, solo se questi sono:
a) sottoposti a respingimento alla frontiera;
b) sottoposti a rimpatrio come sanzione penale o come conseguenza di una sanzione penale.
Basandosi su quest’ultimo comma, il 17 luglio 2008, in vista della definitiva emanazione della Direttiva, il ministro dell’Interno Maroni dichiarò che sarebbe stata introdotta anche in Italia una norma sul reato di immigrazione clandestina, perché “Nella direttiva europea sui rimpatri […] lo Stato può procedere all’espulsione immediata se il provvedimento è conseguenza di una sentenza penale
Ecco quindi che, per salvare le espulsioni così come previste dalla normativa italiana, con la legge n. 94/2009 (nota come “pacchetto sicurezza”) venne introdotto nel Testo Unico sull’immigrazione l’art. 10 bis, che prevede il reato di presenza irregolare sul territorio dello Stato: si tratta di una contravvenzione, comminata a seguito di un processo svolto davanti al Giudice di Pace con un rito brevissimo, e che può essere punita, alternativamente, con un’ammenda in denaro o con un’immediata espulsione dal territorio dello Stato.
Sulle differenze tra i due reati, è opportuno spendere qualche parola in più.
I reati penali si distinguono, tradizionalmente, in contravvenzioni e delitti.
Il codice penale, all’art. 39, distingue delitti e contravvenzioni in base alle pene che vengono comminate ai colpevoli, ma non ne dà una definizione.
I delitti sono puniti con la reclusione e con la multa. Le contravvenzioni sono punite con l’arresto o con l’ammenda. In sostanza, si tratta solo di una differenza di intensità: la reclusione dura di più dell’arresto, e la multa ha un ammontare maggiore rispetto all’ammenda.
Sia l’art. 14, comma 5-ter (introdotto dalla Bosssi-Fini nel 2002), sia l’art. 10 bis (introdotto nel 2009 dal pacchetto sicurezza), contengono norme penali, per cui tutti e due i tipi di condotta sono puniti penalmente. La differenza sta nel tipo di sanzione penale imposta dalle due norme: delitto il primo (disobbedire all’ordine del Questore di lasciare l’Italia), contravvenzione il secondo (entrare e trattenersi sul territorio dello Stato senza un permesso di soggiorno).
Tuttavia, il tentativo di arginare gli effetti della Direttiva si è rivelato ben più difficile del previsto. Infatti, la Corte di Giustizia UE del Lussemburgo (organo dell’UE deputato a dare un’interpretazione vincolante alle direttive) ha da tempo affermato che gli atti delle istituzioni comunitarie devono avere carattere di effettività. Ora, dato che il reato di immigrazione clandestina era già previsto nell’ordinamento di numerosi stati dell’UE al momento dell’emanazione della Direttiva, accettare l’interpretazione del ministro Maroni significherebbe che le istituzioni europee hanno promulgato una direttiva sapendo già che questa non sarebbe mai stata attuata in quei Paesi. E questo sarebbe in contrasto con gli indirizzi interpretativi della Corte.
È probabile, quindi, che la Direttiva si riferisca ai reati cd. propri, come ad esempio la rapina, e non quelli connessi alla semplice presenza irregolare dello straniero nel territorio dello stato.
Dato che il termine di attuazione della Direttiva è scaduto senza che l’Italia vi abbia dato attuazione, resta da chiarire se la Direttiva rimpatri abbia comunque efficacia vincolante anche in Italia.
Ora, perché un atto normativo comunitario possa considerarsi dotato di efficacia diretta occorre che:
·         la direttiva sia dettagliata, ovvero chiara, cioè non ambigua od equivoca; precisa, cioè sufficientemente specifica e tale da non necessitare di ulteriori interventi per poter essere applicata; incondizionata, cioè prevedere una disciplina non sottoposta a condizioni per poter essere applicata;
·          sia scaduto il termine di attuazione per lo Stato.
In questi casi, si dice che la Direttiva ha carattere “self-executing”, cioè non necessita, per essere direttamente efficacie, di un atto normativo nazionale di recepimento.
Sulla base di questi principi, sin dall’inizio del 2011, molti giudici penali italiani hanno assolto una serie di imputati dall’accusa di inottemperanza all’ordine di allontanamento coattivo emesso dal Questore, proprio per la difformità delle norme italiane rispetto alla Direttiva (è il caso di una Sentenza del Tribunale di Cagliari del 14 gennaio).
Altri hanno dichiarato di non doversi procedere, in quanto hanno ritenuto che la condotta dell’inottemperanza all’ordine del Questore non è più prevista come reato (Dott.ssa Zaccariello, Tribunale monocratico di Bologna, 20 gennaio 2011).
Questi giudici hanno pertanto ritenuto che la Direttiva rimpatri avesse carattere self-executing.
Altri giudici hanno sollevato richiesta di interpretazione dinanzi alla Corte di Giustizia UE, nel Lussemburgo.
Il 28 aprile scorso, nella causa C-61/11, la Corte di Giustizia ha pronunciato una sentenza divenuta famosa. Molti mezzi d’informazione hanno diffuso la notizia, sostenendo che la sentenza abrogava il cd. reato di clandestinità (art. 10 bis).
In realtà, la sentenza ha invece dichiarato incompatibile con la normativa dell’Unione (e in particolare con la cd. Direttiva rimpatri) il delitto di inottemperanza all’ordine del Questore di lasciare l’Italia (l’art. 14, comma 5-ter, del T.U. Immigrazione).
In seguito a tale sentenza, tutti i giudici penali italiani si stanno adeguando a questa linea interpretativa.
Da ultimo, anche la suprema Corte di Cassazione ha riconosciuto l’intervenuta abolitio criminis del delitto di inottemperanza all’ordine del Questore, con la Sentenza n. 18586, pubblicata il 11 maggio 2011.
Gli effetti di questa abrogazione del delitto di inottemperanza sono potenzialmente dirompenti.
Basta pensare alla cd. Sanatoria delle badanti del 2009 (più propriamente detta “emersione dal lavoro irregolare”, disposta disposta dall’Art 1 ter della legge n. 102/2009  ).
Migliaia di domande di regolarizzazione di badanti e collaboratori domestici sono state rigettate in questi due anni, laddove i lavoratori extra-UE in attesa di regolarizzazione erano stati condannati per il delitto di inottemperanza previsto dall’art. 14, comma 5 ter (anche con sentenze non ancora passate in giudicato, essendo in molti casi pendente l’appello).
Ebbene, il Consiglio di Stato (ovvero il massimo organo della Giustizia amministrativa nel nostro Paese), riunito in Adunanza Plenaria, con la Sentenza n. 7 del 10 maggio 2011 ha dichiarato non ostativo al perfezionamento dell’emersione il reato previsto dall’art 14, comma 5 ter del testo unico sull’immigrazione.
Dopo una serie di tentennamenti, il Ministero dell’Interno ha finalmente riconosciuto questa sentenza con la Circolare n. 17102 del 23 giugno 2011:
Tuttavia, gli effetti della Direttiva rimpatri non si sono fermati qui.
La Sentenza del Giudice di Pace di Torino n. 314 del 22 febbraio 2011, ha dichiarato inapplicabile il reato di ingresso e soggiorno irregolare (art 10 bis del TU) per contrasto con la Direttiva rimpatri. Secondo il Giudice di Pace, questa condotta non è più prevista come reato.
Altri Giudici di Pace hanno sollecitato un altro intervento interpretativo della Corte d Giustizia UE.
C’è, quindi, la possibilità concreta che la norma che sanziona il cd. reato di clandestinità possa essere effettivamente ritenuta non più applicabile.
Questo farebbe venir meno quella odiosa situazione per cui un qualsiasi pubblico ufficiale (ad esempio, chi deve celebrare un matrimonio, o un ufficiale dello stato civile, o un cancelliere del tribunale, o un agente delle forze dell’ordine), se, nell’esercizio delle proprie funzioni, si trova davanti un immigrato in posizione irregolare, DEVE denunciarlo prontamente, altrimenti rischia a sua volta una denuncia ai sensi dell’articolo 361 del codice penale.
Anche altre figure di reato stanno cadendo a seguito dell’applicazione nel nostro territorio della Direttiva  n. 2008/115/CE.
È il caso, ad esempio, dell’art. 13, comma 13, del T.U., che punisce il divieto di reingresso sul territorio dello Stato prima dello scadere dei dieci anni dall’espulsione: poiché la Direttiva prevede un termine massimo di cinque anni, e se la Direttiva è self-executing, anche tale norma è chiaramente destinata ad essere considerata inapplicabile.
L’applicazione diretta della Direttiva sta avendo effetti anche sul piano amministrativo: alcuni Giudici di Pace hanno annullato decreti di espulsione prefettizi perché considerati non conformi alla Direttiva rimpatri. (Decreto del Giudice di Pace di Firenze del 17 febbraio 2011; Giudice di Pace di Alessandria del 6 maggio 2011).
Più di recente, il Tribunale di Varese, il 30 Maggio 2011 ha decretato che, in ossequio alla Direttiva, il Prefetto non può ordinare l’espulsione senza la concessione di un termine minimo di 7 giorni per la partenza volontaria.
In conclusione, quella che, al momento della sua emanazione, fu attaccata da più parti come la “direttiva della vergogna”, ha avuto, e ancora sta avendo, un dirompente effetto positivo su una normativa contraddittoria e criminogena, quale era quella italiana in tema di immigrazione.
Ciò, va però rilevato, non avviene perché la Direttiva in questione sia particolarmente “liberale”, ma perché gli standard di rispetto della persona umana previsti dalla normativa italiana erano (e ancora in parte sono) particolarmente bassi.
La situazione che si è venuta a creare, ha pertanto spinto il Governo a, diciamo così, correre ai ripari, emanando il Decreto-legge  n. 89 del 23 Giugno 2011. Da un lato, la normativa viene adeguata alle novità di cui si è parlato sopra. Dall’altro, si tenta di aggirare le normative UE. In particolare:
        non è più previsto il requisito dell’ingresso regolare nel territorio dello Stato, perché il familiare extra-UE del cittadino comunitario possa richiedere l’iscrizione anagrafica e il rilascio della carta di soggiorno
        In tema di requisiti per l’allontanamento dello straniero che sia cittadino dell’UE, viene definito con più chiarezza cosa si intende per pericolosità “sufficientemente grave“, e si tenta di adeguare la procedura prefettizia.
        Per quanto riguarda, invece, l’allontanamento degli stranieri extra-UE:
1.viene ridotto a 5 anni il divieto di reingresso in caso di espulsione
2.viene riconosciuto che il reato di ingresso e soggiorno irregolare (l’art. 10 bis), così come il provvedimento di espulsione, non possono essere adottati nell’ambito di controlli all’uscita dello straniero dal territorio dello Stato
3.   la violazione dell’ordine di allontanamento del Questore, l’ormai famoso art 14, comma 5 ter, è punito con una semplice multa (Ma la norma prevede anche la possibilità di sostituire l’ammenda con l’espulsione, aggirando così la normativa UE).
4.   È prevista, per lo straniero, la possibilità di fare richiesta per entrare in un programma di rimpatrio volontario.
5.   è possibile prorogare il trattenimento nei CIE fino a 18 mesi.
Il Decreto-legge, tuttavia, lascia in vigore il reato di clandestinità, previsto dall’art. 10 bis.
Questo potrebbe comportare delle importanti conseguenze, sul piano pratico: è proprio la natura penale del cd. reato di clandestinità il motivo per cui entra in gioco l’art. 361 del codice penale. Questo articolo sanziona penalmente la “Omessa denuncia di reato da parte del pubblico ufficiale”: l’effetto era che un “clandestino” non poteva rivolgersi a nessun pubblico ufficiale, neanche per sposarsi o riconoscere un figlio (anche se la faccenda è poi cambiata, per fortuna…), perché, se lo avesse fatto, il pubblico ufficiale sarebbe stato costretto a denunciarlo per violazione del cd. reato di clandestinità (art. 10 bis). Infatti, se non lo avesse denunciato, il pubblico ufficiale sarebbe stato, a sua volta, passibile di denuncia penale ai sensi dell’art. 361 del codice penale.
Resta da vedere se gli interpreti (cioè, principalmente, i giudici), e in particolare la Corte di Giustizia UE, investita della questione da alcuni giudici di pace italiani, riterranno o meno che anche l’art. 10 bis violi la Direttiva rimpatri.
Pierluigi Umbriano
Fonti:
www.diritto24.ilsole24ore.com