Il movimento Y' En A Marre, tra hip hop e politica. I giovani che hanno risvegliato il Senegal

L.M. - 16 Luglio 2011
Dakar-clandò
la rubrica di Chiara Barison
La primavera senegalese e i suoi protagonisti

DAKAR. Lunedì 27 giugno. Sono solo 24 ore che sono tornata a Dakar e la frenesia di un viaggio organizzato in velocità mi ha stremato. Eppure, nonostante la stanchezza ho voglia di rivedere gli amici, la famiglia. A ‘Ngor, dove Vera si è trasferita da qualche mese, ho impiegato più del solito per trovare un taxi libero.

C’è nell’aria qualcosa di strano. I senegalesi sembrano essere in fermento come mai era successo nella storia del paese indipendente. Alla guida un vecchio tassista guineano, la macchina scassata e tanta voglia di parlare. Lo ascolto raccontarmi il suo Senegal, da immigrato e da africano. E’ la stessa visione dei senegalesi, un paese crollato pian piano sotto il peso di una facciata di sviluppo, lustrini e paillettes che il presidente Wade ha voluto in tutti i modi costruire, nonostante la mancanza di possibilità, nonostante il prezzo troppo alto che il popolo avrebbe dovuto pagare. Wade è un presidente colto e acculturato e che, a differenza di tanti altri presidenti africani, non proviene da una formazione militare o dall’esercito. Wade non è mai stato un colonnello o un generale, eppure è dispotico ed irriverente. Aveva visto lontano, quando divenne presidente dieci anni fa. L’Europa, satura e sfinita, avrebbe rivolto maggiore attenzione al continente africano, specialmente i ricchi investitori. E quale paese migliore se non il Senegal, affacciato sul mare e stabile dalla sua indipendenza? Sapeva Wade che gli investitori sarebbero venuti qui e, con estremo calcolo e lucidità, ha costruito una capitale che potesse accogliere le richieste di questa nuova casta di immigrati. I mezzi non erano sufficienti per modernizzare un intero paese, seppure piccolo come il Senegal, per cui tutto è stato concentrato su Dakar, anzi, sui quartieri bene di Dakar. Dagli Almadies a Pikine, un viaggio che porta dall’Europa all’Africa, passando per il Nord Africa, ovvero i quartieri medi di Patte d’Oie e Nord Foire. La Dakar bene è europea, moderna, viva, luccicante. Ma questa Dakar, che ha prosciugato le casse dello stato, non è affatto la Dakar dei senegalesi e soprattutto, non è la capitale che può permettersi di rappresentare il paese. I senegalesi non possono permettersi di godersela, di viverla, troppo cara, troppo lontana dai problemi quotidiani, i continui tagli di corrente, i costanti aumenti del costo della vita. La gente ha fame ed è arrabbiata. Scontenta, costretta a subire orde di occidentali che, a dispetto loro, possono permettersi di pagare prezzi maggiorati su tutto, causa inconsapevole della distruzione di tutto un paese. Fuori Dakar, le regioni piangono, completamente abbandonate a se stesse. In Casamance i ribelli hanno ripreso a farsi sentire, stanchi e soffocati dalla prepotenza di un presidente che ha voluto fare il passo più lungo della gamba. Il vecchio tassista conferma, scuotendo la testa. E’ difficile per tutti vivere a Dakar, oggi. All’improvviso una coda infinita di macchine, le strade bloccate, ovunque. Giovani armati, eccitati dal gruppo, bruciano pneumatici e spazzatura, urlando e scalpitando come cavalli impazziti. Io osservo tutto dal finestrino bloccato di un vecchio taxi. Questo è un Senegal che non conosco. Anche il mio anziano accompagnatore è preoccupato e non sa che strada prendere. L’odore acre della plastica bruciata fa da contorno ad una città nera. La luce è stata tagliata. Ad un certo punto una bastonata sul cofano mi fa capire che non è uno scherzo, che non è un film. “Ferma la macchina immediatamente!” urlano un gruppo di ragazzini poco più che adolescenti. “Scendete!”. Non ho mai avuto paura in nove anni di Senegal. Mai, tranne oggi. Il colore della pelle può essere una discriminante in tempo di rivolta. Scendiamo e io stringo la mia borsa. Il vecchio tassista mi sussurra: “Non mostrare che hai paura e non guardarli. Mai. Seguimi e cammina”. Lo seguo e ho le gambe che tremano. Tutto attorno roghi. Della polizia neanche l’ombra. Stranamente ci lasciano andare. Corro ad un incrocio sperando di trovare un altro taxi. Impossibile, nessuno si ferma. All’improvviso un ragazzo apre la portiera della sua macchina. “Sali” mi dice e io non esito. “Un Senegal così non si era mai visto prima” mi dice “distruggono tutto e non si rendono conto che saremo noi che dovremmo ripagare tutto. In più, sono tutti ragazzini che non voteranno neppure, il prossimo anno”. Mi giro e osservo una figura ritagliata nel buio. Ho ancora paura. Questo Senegal non è il mio Senegal, penso.

Lunedì 11 luglio. Da quando sono qui non guardo mai la TV. Mi rendo conto che solo in Italia ne sono dipendente, come se diventasse implicito entrare in casa ed accenderla. Qui leggo e le informazioni sul resto del mondo mi arrivano, democratiche, dai differenti punti di vista di Internet. Leggo che a Milano, domani, si terrà una manifestazione del movimento “Y en a marre” di fronte al consolato senegalese. Sì, il popolo senegalese si è finalmente svegliato dal torpore che lo avvolge da decenni. Un popolo silente e arreso per cui mi sono sempre posta la domanda sul perché accettasse qualsiasi condizione come se fosse normale, senza fiatare. Nelle manifestazioni del 19 marzo e del 23 giugno, il Senegal è esploso in tutta la sua rabbia. Un fiume di gente è sceso nelle piazze e nelle strade per dire no ad un regime sempre più soffocante e alla cattiva gestione di un paese allo sfacelo. L’ultima di queste manifestazioni, purtroppo, degenerata in una vera e propria guerra urbana, con la polizia che sparava lacrimogeni ad altezza d’uomo. Ricordi di una Genova blindata. Mi chiedo allora chi ci sia dietro il movimento che ha contribuito a questo risveglio “storico”. Chi sono le menti di “Y en a marre”? Un gruppo di artisti rap e di giornalisti, si dice. A me interessa vederne almeno qualcuno, chiedere direttamente a loro cosa ne pensano di tutto ciò che è accaduto e che sta accadendo. Il clandò, il mezzo di trasporto popolar-economico che dà poi il nome a questa mia rubrica, mi torna utile. Pochi mesi fa, proprio dentro una di queste macchine semi scassate avevo conosciuto Thierno, un simpatico ragazzo senegalese residente a Rimini. Thierno è di Kaolack, una città del Senegal più caldo. Da lì molti degli ideatori del movimento, compresi i Keur Gui (prima foto, ndr), gruppo rap storico, da sempre impegnato nella sensibilizzazione politica e nella lotta della classe operaia. Una sorta di 99 Posse senegalesi, insomma. Ricordo che proprio grazie a Thierno conobbi Papa Alioune Gadiaga (seconda foto, ndr), il manager dei Keur Gui, anche lui di Kaolack. Da allo

ra, il contatto costante tramite Facebook. La differenza tra il Senegal e l’Italia sta in un dettaglio che non è così insignificante. In Senegal si riesce ad avere più facilmente accesso a tutti, indipendentemente dalla loro posizione, cantanti, lottatori, giornalisti, politici. Chiami e, in generale, non ti viene mai negato un incontro. Le distanze tra le persone sono accorciate. In Italia, probabilmente, non avrei mai potuto conoscere così facilmente i leader di un partito politico, per esempio. Per incontrare Papa mi è bastata una mail a Thierno. L’amico comune è stato, inconsapevolmente, il mezzo di tramite che ha garantito per entrambi. L’appuntamento era per le 21 alla Boulangerie di Yoff Layennes. Alle 20.45 Papa mi chiama. Era già lì. Camminando in tutta velocità per strada cercavo di realizzare come lui fosse il primo senegalese in anticipo che io abbia mai incontrato. (“Chiara, non tutti i senegalesi sono uguali”). Arrivo sudata e me ne vergogno pure un po’, ho l’aria di una di quelle tante turiste che non sopportano il caldo senegalese. Papa è un ragazzo rasta di trent’anni, alto e sorridente. La prima cosa che mi chiede è perché fossi così tanto interessata a scrivere su “Y en a marre”. Gli accenno di Milano e gli faccio notare di come un movimento nato dalla cultura urbana dell’hip hop abbia stravolto la storia di un paese, superando i confini fino ad arrivare al mio, di paese. “Y en a marre” significa letteralmente, “Siamo stanchi”. Gli chiedo perché siano contro Wade.

“Non siamo contro Wade” mi dice, facendomi notare la superficialità della mia domanda “Noi siamo contro un sistema mafioso che impera da ormai troppo tempo. Un sistema di corruzione e clientelismo che ha messo da parte la meritocrazia. Un sistema marcio per cui sei se hai, indipendentemente da come hai fatto i soldi o dalle modalità che ti hanno portato a rivestire il ruolo che hai. Un sistema che ha calpestato i diritti del popolo, che ha sprofondato il paese nella povertà e nella disoccupazione”. Parla del Senegal, Papa, ma sembra che parli dell’Italia, poi continua “il movimento Y en a marre è un movimento “in costante guardia”. Siamo sempre lì, pronti a far sentire la nostra voce nel momento in cui qualcosa non va. I politici l’hanno capito, non possono fare tutto ciò che vogliono. Il 23 giugno, in pieno centro, tutti i senegalesi erano lì, seduti di fronte al parlamento per fare capire a Wade che no, non poteva cambiare la costituzione perché a lui andava di farlo. Doveva rendere conto a tutti noi. E così ha fatto. Ha capito e i senegalesi pure, per la prima volta nella storia, si sono resi conto del potere che il popolo ha non appena diviene cosciente della propria posizione di forza”. Dopo aver mangiato e bevuto mi fa cenno di alzarmi e mi dice “Vieni, ti porto nella sede del movimento, lì dove “Y en a marre” è nato, grazie ai sogni di un gruppo di ragazzi che discutevano di politica attorno ad un bicchierino di the. Il viaggio è breve, la sede è a Parcelles, il quartiere vicino a Yoff. Arriviamo in un piccolo appartamento uguale a tanti. In salotto un gruppo di ragazzi e di ragazze e tre computer accesi. Tutti lavorano alla comunicazione, nonostante sia notte inoltrata. Mi fa piacere vedere che ci sono anche delle ragazze. “Cosa si prefigge il movimento?”, chiedo ad Alioune Sané, il responsabile ufficiale delle relazioni esterne di “Y en a marre”, un giovane e brillante giornalista di Dakar. “Y en a marre” rappresenta la nuova generazione di senegalesi coscienti. Senegalesi che vogliono cambiare il paese, che vogliono un Senegal nuovo, positivo. Il nostro scopo è cambiare le mentalità, fare educazione civica, insegnare che la cosa pubblica è un bene di tutti e che ognuno di noi se ne deve prendere cura, che fregarsene non serve, che se trasformiamo le città in spazzature ambulanti, siamo noi che moriremo nella sporcizia e nessun altro. Vogliamo poi ristabilire la meritocrazia e ristabilire un equilibrio tra salari e costo della vita”. Sono affascinata da questi ragazzi, non avevo mai conosciuto questa facciata di Senegal. Eppure questi ragazzi avrebbero potuto continuare la loro vita, senza sobbarcarsi le sorti di un paese, senza rischiare di essere incarcerati e picchiati senza motivo, come invece è successo. “Io sono stato uno di quelli che il 23 giugno è stato arrestato e picchiato in una piccola cella di un commissariato di Kaolack” mi dice Papa mostrandomi i tagli e i polsi lacerati da manette troppo strette “non siamo simpatici ai poliziotti” mi sussurra ridendo “sanno che noi siamo contro il sistema di corruzione che li fa vivere e contro il clima dispotico di paura che hanno prepotentemente creato”. “Hanno mai provato a corrompervi?” chiedo. “Innumerevoli volte” mi dice Alioune “hanno provato a mettere gli uni contro gli altri i membri fondatori, hanno provato ad offrirci soldi, hanno inviato ministri. Da noi, nessuna negoziazione. La democrazia o la si rispetta o no, non si può mediare in alcun modo. Anche la figlia di Wade ha chiesto di venire qui, in sede. Le abbiamo detto di no. A che titolo avremmo dovuto riceverla? Solo perché è la figlia del presidente? E allora? Per noi vale di più l’opinione di un autista di car rapide”. Come ultima domanda, tiro fuori quello che quel famoso lunedì 27, fatta scendere da un taxi preso a bastonate, avevo conservato dentro di me, impaurita ed incazzata, “Non trovate che i disordini che hanno seguito la manifestazione del 23 giugno, le aggressioni, i furti, le chiese e le case bruciate siano state un rendere illegittima una protesta nata dalla legittimità di dire basta di un popolo stanco e affaticato?”. “Noi siamo contro la violenza. “Y en a marre” è un movimento assolutamente non violento. Pensa che il 23 ci siamo tutti seduti per terra, in silenzio. Era questa la nostra protesta, poi la polizia è arrivata trascinando i leader del movimento a bastonate nelle loro camionette. I giorni a seguire, tanti gli infiltrati, pagati per creare disordini e saccheggiare e tanti i giovani, giovanissimi, immaturi e incoscienti che si sono approfittati della situazione. Da quel lunedì abbiamo iniziato a girare il paese facendo sensibilizzazione, cercando di fare capire ai giovani che la violenza non è un mezzo e che l’arma più forte che ognuno di noi ha è uno e solo, il voto. Andiamo nelle strade e nelle scuole spingendo i giovani ad andare a votare. Questo è Y en a marre”. Sorrido e penso che questi moderni combattenti hanno accettato di incontrare Chiara e di farsi intervistare. La figlia del presidente Wade è stata rifiutata. Sarebbe mai potuto accadere lo stesso, in Italia?
Martedì 12 luglio. Sono seduta sulle scale di un ponte che collega due strade trafficate. Osservo il “Piano Piano” un ristorante a Nord Foire che un gruppo di ragazzi, durante gli scontri degenerati in guerriglia urbana delle settimane precedenti, si erano autorizzati a bruciare. Cattiveria e gelosia di un business che funzionava da tempo. Il proprietario, nel silenzio generale, pagato il prezzo della follia della folla, ha ricostruito tutto, pezzo dopo pezzo, mattone dopo mattone. Quella sera era di nuovo aperto, nonostante il segno di bruciato tutt’attorno. “Sono contenta che abbia riaperto” dice Vera sorridendo e in effetti penso anche io che sia stata una grande lezione di civiltà all’inciviltà. “Hai risolto i tuoi problemi con Annie?” chiedo a Ibrahima. “La tua amica non sa quello che vuole. Le ho trovato una macchina al porto che non costa nulla e lei mi ha detto di no, che non la vuole perché è trafficata” mi risponde lui, seccato. Poi continua “Non si rende conto che non è in Olanda qui, è in Senegal e in Senegal si fa così, tutti trafficano e tutti quelli che vedi con i soldi, qui, sappi che li hanno fatti illegalmente. Anche io, da quando lavoro al porto, traffico. Il bello di questo lavoro è che puoi fare tanti
soldi, subito ed hai un sacco di occasioni per fare business. Qui non puoi fare tutto onestamente, ti devi adeguare se vuoi vivere qui”. Ascolto le parole di Ibrahima e cadono come doccia fredda, il giorno dopo aver incontrato i ragazzi di Y en a marre. Questo è i Senegal che loro si propongono di cambiare. Sono coetanei, anzi, siamo tutti coetanei. E’ vero che bisogna arrendersi ad uno stato di cose per riuscire a vivere o bisogna ribellarsi per cambiarlo in meglio, questo stato di cose? Il 2012, anno di elezioni, i senegalesi ce lo diranno, nel bene o nel male. Io aspetto, ascoltando la musica che finalmente ha ricominciato ad allietare le notti di un “Piano Piano” appena ricostruito.