Dall'Africa in gommone ad una prigione a Lampedusa. I bambini migranti che arrivano in Italia

L.M. - 22 Agosto 2011
Il racconto della visita al Cpsa di Contrada Imbriacola, Lampedusa. 12 agosto 2011. Missione con Terre des Hommes

Nel centro c’erano tutti. C’è la piccola Chideria, nigeriana, tre mesi di vita. Una vita ostinatamente strappata alle onde, stretta nell’abbraccio della madre. Gli occhi neri di Chideria in soli tre mesi hanno già visto di tutto: hanno visto una guerra, la fuga disperata sotto le bombe, e poi la salvezza cercata su una barca: pochi metri per 400 persone.

Ha visto in sei giorni e sei notti di navigazione, morire di fame, di sete, di freddo, di stenti, almeno 100 suoi compagni di viaggio quasi tutti donne e bambini. Ha visto affidare i loro corpi alle onde per alleggerire il carico della barca, per tentare di salvare la sua ed altre vite. Lei, protetta da Dio -questo significa il suo nome- è l’unica tra bimbi della sua barca, ad essere riuscita a sopravvivere a questo terribile, interminabile, viaggio. Merito del seno della madre da cui non si è mai scostata e a cui ha succhiato ogni goccia di latte per non morire disidrata.

E ora dorme, Chideria, dimentica di tutto, tra le braccia del padre, coccolata da tutti. Le ronzano intorno i mille voracissimi insetti presenti in questa gabbia chiamata centro di primo soccorso e accoglienza dove si trova rinchiusa insieme ad altre centinaia di migranti (mentre scrivo siamo arrivati a quota 1600) da dieci giorni. E non basta l’attenzione di Federico, il direttore del centro che tenta almeno di procurarle una zanzariera per la notte, questa prigione per migranti non è adatta ad una neonata di tre mesi, sbarcata miracolosamente illesa. Nessuno, neppure, il peggiore dei leghisti, potrebbe sostenere che questa creatura nata tra bombe di una guerra che non le appartiene e approdata nelle nostre coste possa meritarsi il trattenimento, la prigionia. Nessuno può, guardandola e guardando il lercio materasso di gommapiuma su cui sta dormendo tra sbarre, divise, insetti e sporcizia, attribuirle una qualche colpa, nè pensare che se la meriti questa indecente prigionia.

Dietro le stesse sbarre c’è anche Lucki, un giovane nigeriano. Anche i suoi occhi hanno visto ogni male, ma a differenza di Chideria e purtroppo per lui, Lucki è destinato a rivedere in tutti i suoi incubi le immagini di quelle notti e di quei giorni di navigazione: dovrà sostenere ancora e ancora il ricordo dei compagni morti di stenti, di quelli inghiottiti dal mare e di quelli ritrovati cadaveri nella stiva. Tra loro, suo fratello. Il fratello che non ha potuto neppure salutare con una preghiera o seppellire con un pianto. Lucki è uno dei sopravvissuti dello sbarco del primo agosto e da allora è rinchiuso insieme a Chideria a Contrada Imbriacola.

Ed era rinchiuso anche mentre i medici legali ad Agrigento frugavano nel cadavere del fratello in cerca di un pò di verità sulla sua morte. Ed era ancora rinchiuso anche mentre il corpo ricomposto del fratello, veniva calato in un anonimo loculo.
Nessuno ha pensato che forse quei venticinque migranti trovati morti, probabilmente assassinati, nella stiva della barca su cui avevano cercato la salvezza, potessero avere, sulla stessa barca-bara dei parenti, degli amici, nè che meritassero da loro un definitivo, pietoso saluto. Così i venticinque migranti vinti dal viaggio sono stati sepolti senza un nome e senza una lacrima. Tra loro c’era anche il fratello di Lucki. Lui ci chiede di verificare cosa ne sia stato del fratello perchè sia morto e come farà a pregarlo.

Le stesse domande che ci fa Arafat, un ragazzino di 16 anni salito sulla stessa barca di Lucki con il proprio fratello di cui ha perso le tracce. Si viaggia ammassati, gli uni sugli altri, anche quattro piani di corpi e dopo un pò di ore di navigazione non senti più le gambe, non puoi muovere un muscolo, incastrato tra gli altri, sotto gli altri, e dopo ancora molte ore, se sei ancora vivo, intontito dalla fame e dalle sete, paralizzato da freddo, quasi perdi i sensi, e ti si annebbia la vista e se chiudi gli occhi o li tieni aperti vedi solo mare. Così può accadere di perdere un fratello su una barca di pochi metri perchè non riesci più a rintracciarlo con lo sguardo. E poi ti può accadere di perderlo una seconda volta, sbarcato a terra, soccorso da mani sconosciute e poi rinchiuso in una gabbia con centinaia di altri sopravvissuti. E lo cerchi, tuo fratello, e chiedi in giro, nella gabbia, ma non lo trovi più. Poi ti dicono che nella stiva della barca su cui viaggiavate hanno trovato 25 cadaveri, che altri sono stati buttati in mare e che nella stiva, morto, c’era anche tuo fratello.
E allora chiedi di vederlo, per sapere con certezza, per piangere e per pregare. Ma ancora non te lo fanno ritrovare, tuo fratello: l’hanno aperto e poi richiuso. E l’hanno seppellito. Senza dirti nulla.
Ma come posso fare a sapere se davvero era lui? Come posso salutarlo?
Se queste domande te le fa un ragazzo di 16 anni che ha già perso tutto tranne la vita, devi da qualche parte trovare una risposta. Così chiediamo all’ufficio immigrazione che però ci conferma che i venticinque migranti sconfitti dal mare e da mani impietose e disperate sono stati seppelliti senza neppure essere stati identificati e dunque è impossibile per ora sapere se il fratello di Arafat è uno di loro. Chiederemo in Procura per tentare di dargli delle risposte; gli spieghiamo la procedura e le sue difficoltà, lui annuisce e ci ringrazia. Lo fanno sempre tutti nel Centro. Ogni volta che parli con loro anche solo per salutarti, ringraziano. Grazie è una delle prime parole che imparano di italiano. Ed una delle prime che noi abbiamo dimenticato.

Anche Beauty, una ragazzina di 16 anni ha delle domande. Anche lei ha un fratello da ritrovare. Ci chiede aiuto per ritrovare il fratello maggiore. Lui l’aveva portata in salvo, quando la sua bellezza iniziava ad attirare troppe indecenti attenzioni. In Nigeria se hai 15 anni, sei femmina e non hai dei genitori in grado di proteggerti, diventi facile preda dei trafficanti di schiave. Ma Beauty ha un fratello e il fratello la porta in salvo, in Libia. Poi scoppia la guerra e da un giorno all’altro Beauty perde le tracce del fratello. Non lo vede dal febbraio scorso quando erano insieme a Misurata. Si chiama Mose Omokhae e ha 23 anni. E vorrei tanto che qualcuno mi dicesse che è vivo e dove si trova e vorrei poterlo dire a Beauty per vederla aprirsi in un pianto di gioia. Mi piacerebbe per una volta coi vivi parlare di vivi anzichè di morti.

Nella stessa gabbia, con altre domande, convive Zuer, un ragazzino marocchino di 15 anni. Lui era nella stessa barca di Chideria e si è ripreso solo ora, dopo dieci giorni dallo sbarco. Da quel viaggio spaventoso. Ha passato giorni interi senza riuscire a parlare, completamente sconvolto dai sei giorni e dalle sei notti di navigazione in cui 100 suoi compagni di viaggio hanno perso la vita. Ma stamattina come un miracolo, ci regala un sorriso, a occhi bassi.
Ci parla di sua zia: vive in Italia da molti anni insieme al marito a Firenze. Ci chiede di poter andare da loro, non vuole più stare rinchiuso in quella specie di carcere. Ma non è così semplice. Lui è in una gabbia e tutti i suoi diritti devono passare da quelle grate e a volte si rischia che restino impigliati in mezzo. Intanto bisogna capire se la zia è veramente sua zia. Ci disegna il suo albero genealogico ma mi perdo al secondo ramo. E comunque dobbiamo sapere se la zia avrebbe voglia e possibilità di prendersi cura di lui. La chiamiamo al telefono. Lei piange quando capisce che siamo con Zuer e realizza che il suo giovane nipote è sopravissuto a quel viaggio disgraziato di cui anche i giornali hanno parlato. Certo che vuole prendersi cura di lui! Sono disposti, lei e il marito, a venire a prendere il nipote anche subito, a Lampedusa. Ma non è così facile quando sei in una gabbia.
Passiamo il telefono a Zuer. Lui cambia lo sguardo, ci regala involontariamente un sorriso pieno. Parlano a lungo, si dicono che si vogliono bene, ed è evidente. Promettiamo che li aiuteremo a ricongiungersi ed iniziamo a raccogliere le carte di cui si nutre la burocrazia quando macina diritti. Ma anche la raccolta di carte in una gabbia non è cosa semplice. Gli do i recapiti del mio studio, fuori dalle sbarre forse riusciremo a raddrizzare qualche torto.

Lampedusa, Molo Favarolo 13 agosto
Ne arrivano 330, dalla Libia. Vedi la barchetta azzurra in cui stavano accatastati e quasi non ci credi: pochi metri di legno instabile per tanti corpi, per tante vite.
I primi a ricevere le cure sono gli undici bimbi. Ben otto sono figli della stessa coppia. Il padre stremato si lamenta: non riesce mai a tenerli tutti insieme, all’appello a rotazione ne manca sempre uno. Ma sulla barca non c’era lo spazio per le monellerie e i gli otto fratelli hanno navigato per 36 ore compatti e compatti e vivi sono sbarcati. Sono tutti vivi in questo sbarco: spaventati, confusi, stremati, ma vivi. E’ un buono sbarco questo. Tra loro si avvicina Moustapha, un ragazzino tunisino, spaventatissimo, magrissimo e letteralmente verde in volto. Ha paura di tutti: è omosessuale, evidentemente omosessuale. Ed il suo orientamento sessuale è fonte di persecuzioni nel paese da cui proviene. Ci dice che rischia abusi continuamente e che nella barca hanno anche cercato di ucciderlo. Lo scortiamo fino al bagno chimico sul molo e gli raccomandiamo appena verrà trasferito nel Centro di raccontare le sue paure alle forze dell’ordine.
Lo rivediamo dopo un’ora nel “gabbione” destinato ai migranti maschi adulti all’interno della gabbia di Contrada Imbriacola.
Ci viene subito incontro, ci implora di portarlo fuori di lì, ché non può restare con gli altri perchè rischierebbe di essere sottoposto ad abusi e violenze di ogni tipo. Lo portiamo fuori dalla gabbia, parliamo con la dirigente della polizia e con Federico direttore del Centro. Capiscono al volo la situazione: lo sguardo terrorizzato di questo ragazzino ed il suo colorito terreo non ammettono dubbi e invocano immediata empatia. Moustapha viene immediatamente trasferito alla Loran, l’altro Centro dell’Isola destinato alle categorie più vulnerabili. Viene “messo in sicurezza” sistemato in un stanza vuota accanto agli uffici amministrativi dove Pietro, il direttore, vigilerà sulla sua incolumità. Andiamo nel pomeriggio a vedere come si è sistemato. E’ da solo, raggomitolato su un materassino di gommapiuma. Appena ci vede si alza ci abbraccia e ci ringrazia per almeno cinque minuti consecutivi.
Stanno arrivando altre due barche mentre lascio il centro e l’Isola. In 36 ore ne arriveranno 2000. Recito una sorta di preghiera durante il mio volo comodo e veloce verso casa. Che arrivino vivi, che arrivino tutti, che gli affetti possano ritrovarsi e ricrearsi, che ogni male sia ormai alle loro spalle, che la prigionia sia breve. Che possano avere come un diritto e non come una fortuna un’altra occasione di vita.

Alessandra Ballerini

Alessandra Ballerini è un avvocato immigrazionista della Cgil. Collabora inoltre con la ong Terre des Hommes, attualmente in missione nei centri per immigrati di Lampedusa. Il suo sito internet è www.alessandraballerini.com.