Ventimiglia, gennaio 2001

- 29 Luglio 2012

Il gioco dell’oca Ventimiglia, gennaio 2001

Soprattutto palme. E poi pini domestici, aiuole ben curate, la magnolia dai rami contorti e panchine, ancora lucide per la pioggia che le ha bagnate. Stasera è meglio non guardare il cielo. È minaccioso, gonfio di nuvole. Pioverà anche stanotte e un vento gelido ha cominciato a soffiare tra le foglie delle palme.
«Cosa ha detto?».
«Che tu hai il cappello e vestiti pesanti».
Rashid traduce con pazienza, tenta di intercettare le frasi spezzate dei tanti che parlano. Il suo italiano è lento e meditato come gli occhi che sembrano sempre guardare oltre. Quell’oltre che è vicino e lontano: Ventimiglia, tranquilla città di frontiera. Ci vuole poco a raggiungere il mare, la foce del fiume Roia, con le sue acque gonfie e marroni, gli ultimi sta¬bilimenti balneari su cui domina la città vecchia e poi il buio.
La costa diviene per un breve tratto invisibile, per poi riempirsi di luci. Gli occhi di Rashid, come quelli dei suoi compatrioti, guardano verso quelle luci che si chiamano Mentone, Cap Martin, si chiamano Francia. E si spingono a Nizza, al primo treno verso il paradiso, un paradiso che si chiama Germania, Olanda. Parenti e amici da abbracciare, una casa, un lavoro dignitoso, un po’ di pace e la speranza di ricostruire un giorno la famiglia lasciata in un villaggio sperduto del Kurdistan.
Attorno alla panchina si radunano in tanti, e ognuno ha qualcosa di urgente da dire. Corpi, occhi, volti si avvicendano sotto la luce gialla dei lampioni. Storie che vengono da lontano si accavallano, in una lingua dalle sonorità sconosciute.
«Anche lui vuole passare» dice Rashid.
E appare Memehet che ha quindici anni e il viso paffutello di un adolescente bambino. Viene dal Kurdistan iracheno. È arrivato in Italia da solo e da undici giorni trascorre la maggior parte del tempo in questo giardino. In Iraq c’era la guerra, e lui non poteva neppure andare a scuola. Perciò nottetempo è partito e ora spera di passare la frontiera per raggiungere i parenti che stanno in Germania.
Arriva un uomo di 44 anni, baffoni crespi e viso segnato. Si fa spazio tra gli altri e getta la sua mano al centro del gruppo, come se stesse giocando a morra. Solo quattro dita, manca il mignolo.
«Questo lo devo a Saddam Hussein» dice arrabbiato. «E ieri un poliziotto italiano mi ha picchiato, uno che poteva essere mio figlio».
«Sono arrivato in Italia con 1.300 marchi» racconta Cabar. «Poi 1.000 marchi li ho dimenticati su un telefono pubblico della stazione, e quando sono tornato a riprenderli non c’erano più».
E Cabar dall’aspetto curato, che si vanta di cambiarsi i vestiti tutti i giorni, per il momento non può partire. Perché passare la frontiera costa, e quando non si riesce a prendere il treno bisogna pagare i passeur che in macchina, sui furgoni e qualche volta a piedi accompagnano i kurdi nelle prime città della Francia.
Tra tanta rabbia, c’è uno che ride.
«Guarda come sono vestito!» dice.
Si sbottona la giubba a vento e sotto una giacca elegante mostra tre pantaloni sovrapposti.
«Me li hanno dati a Roma, sono passato di là. Mi hanno trattato bene, c’è brava gente a Roma».
«Dove dormi stanotte?».
«Ventimiglia, Via Del Mare, seconda barca. Questo è il mio indirizzo» ride. «Sono giorni che provo a passare».
«Ma se non potete andar via perché non restate in Italia?».
«Perché in Italia i rifugiati non hanno nulla, fanno la fame».
«Perché i miei parenti sono in Olanda».
«Perché a Roma la polizia ci ha detto di andarcene».
Poi si fanno largo due ragazzi afgani, di venti e ventun anni. Visi tesi, la gola contratta in un inglese duro e spezzato.
«We must go. Dobbiamo andarcene» gridano, a nome loro e dei kurdi che li circondano.
«Non fate nulla per noi, voi italiani. E non ci fate neanche partire».
«Ma noi ce ne andremo lo stesso. E se non ci lasceranno prendere il treno, andremo a piedi».
E queste parole sono vere. Perché in un modo o nell’altro questi uomini dai volti non rasati e i vestiti stropicciati da Ventimiglia se ne andranno. Passeranno, non visti, la frontiera e arriveranno in Francia. E se la polizia italiana li bloccherà mentre provano a prendere un treno alla stazione, sarà un passeur ad accompagnarli oltre confine. Col treno o con la macchina, a piedi o per mare. E attraverso la Francia arriveranno in Germania, in Danimarca o in Olanda dove le comunità kurde sono forti e organizzate. E dove i rifugiati politici godono di maggiori garanzie sociali.
Non hanno lasciato il Kurdistan per venire in Italia. Il Kurdistan che non esiste se non nelle loro menti e nei loro cuori. Nel 1923 il Trattato di Losanna sancì la divisione del territorio abitato dai kurdi fra Iraq, Iran,Turchia e Siria.
Gli equilibri internazionali non permettevano l’esistenza di uno Stato kurdo. Da allora la storia di questo popolo è storia di violenza e sopraffazione: è proibito scrivere, parlare, pensare in kurdo. Quando hanno provato a ribellarsi è stata guerra. Per la Turchia sono terroristi, che minano l’integrità territoriale. In Iraq sono stati più volte combattuti con le armi chimiche. Poi durante la Guerra del Golfo la Nato li ha incitati a prendere le armi contro Saddam Hussein. Ma a guerra conclusa nessuno li ha difesi. Ora vengono uccisi e perseguitati.
Per questo molti sono costretti a fuggire. Mettono insieme i risparmi di una vita, quei sei sette milioni che ci vogliono a organizzare tutto. A volte sono costretti a indebitarsi.
L’Italia è solo una tappa obbligata del loro viaggio. Sbarcano sulle coste della Calabria e della Puglia, passano per Roma e poi subito su verso Nord, per fuggire una volta per tut¬te dall’Italia, che per loro non ha nulla di invitante. E sono decine quelli che arrivano a Ventimiglia ogni giorno. A volte hanno un foglio di carta nelle tasche: uno schema dove sono indicate le quattro possibili vie verso la Francia, e i pericoli legati a ciascun itinerario. La linea ferroviaria con le aree da evitare lungo i binari perché controllate da fotocellule che fanno scattare l’allarme. La statale Aurelia, con le gallerie da aggirare e le scalinate da imboccare. La via degli scogli, da tentare dopo le dieci di sera. E infine quella più diffìcile, la via delle montagne.
Così i kurdi cercano di varcare, invisibili, il confine. Di oltrepassare quelle frontiere che il trattato di Schengen aveva abolito nel 1997, ma solo per i cittadini comunitari. Di sfuggire agli occhi vigili e attenti della gendarmerie francese. Di approfittare di tutto: della notte, delle folle di turisti, della stanchezza dei gendarmi. Perché se hai la pelle un po’ più scura, la barba lunga di tre giorni, i segni tangibili di qualche notte passata all’addiaccio, ecco sbucare dal nulla gli uomini in divisa che ti dicono, con le buone o con le cattive, che quel confine non hai il diritto di varcarlo.
Ma i kurdi l’asilo politico in Italia non vogliono chiederlo. Sanno bene che l’Italia darà loro solo 37mila lire al giorno per i primi quarantacinque giorni. Poi dovrà riunirsi l’apposita Commissione, e la Commissione a riunirsi ci mette mesi. Otto, dieci, perfino quattordici. Mesi in cui chi richiede asilo non può neppure lavorare. Poi se la Commissione stabilirà, in base a prove certe e inconfutabili, che il richiedente asilo è personalmente in pericolo di vita nel proprio paese, questi riceverà lo status di rifugiato politico. E il rifugiato politico potrà finalmente ripartire da capo. Anzi da zero: senza un lavoro, una casa, una fonte di reddito.
Per questo, a Ventimiglia, i kurdi cercano in tutti i modi di non farsi notare. Seduti nella sala d’attesa della stazione o sulle panchine. Guardano il mare e attendono. Immobili, senza parlare, divisi in piccoli gruppi, aspettano che arrivi la notte. La notte che qualcuno passerà su quelle stesse panchine o sulla spiaggia, in qualche casa abbandonata o in costruzione. E che altri, specie le famiglie, specie l’inverno, passeranno al coperto, in piccole pensioni o nelle case messe a disposizione dagli abitanti della città. Pagando affitti carissimi, che arrivano fino a 200 mila lire a notte per un posto letto.
Gente di passaggio, che aspetta di giorno e cammina di notte. Questa è l’immagine del popolo kurdo. Gente muta ed educata, che si è ormai quasi appropriata del giardino pubblico dalle aiuole ben curate, situato tra il mare e la stazione. E Ventimtglia, città commerciale, a questo passaggio si è abituata. Scatta l’emergenza solo quando, come nell’agosto del 2000, si trova di fronte a un arrivo di massa. Con le famiglie orgogliose e stremate, e il giardino pieno di bambini. Ma per lo più la città li tollera, perché sa che presto andranno via. Sì, certo saranno seguiti da altri. Ma sa bene che nessuno ha intenzione di fermarsi.
I kurdi inoltre portano soldi, e non solo per quel commercio illecito e spietato che gli affitta le case e li guida fuori dal paese. Ma anche perché comprano cibo e bevande, e hanno sempre soldi per pagare. Un flusso di denaro che non si arresta con l’arrivo dell’inverno.
Nel giardino fa freddo, e qualcuno comincia ad avviarsi verso la stazione. Poi arriva un uomo alto e magro, con una giacca a vento rosso fuoco che non passa certo inosservata.
«È algerino» dice Rashid.
I kurdi cominciano a distrarsi. Qualcuno si allontana.
L’uomo dalla giacca rossa si ferma sotto un pino, circondato dal gruppo dei kurdi.
Lui parla, gli altri ascoltano.
«Stanno prendendo un appuntamento» dice Rashid.
«Ha una macchina» aggiunge.
«Vuole 200 mila lire a persona».
Ma anche la stazione è piena di gente che aspetta. E tenta di salire sul primo treno per la Francia. Le famiglie sono sedute in sala d’attesa. Un gruppo di kurdi iraniani è davanti agli uffici della polizia. Ma la maggior parte sono al primo binario, in attesa del treno per Nizza delle ore 19 e 19. Oggi la polizia è cattiva, e non lascerà salire nessuno. I kurdi si accalcano al binario, perché se quel treno non possono prenderlo, lo vogliono almeno vedere partire. Un poliziotto piccolo e nervoso gli intima di allontanarsi. Poi sul treno sale una bionda ragazza ungherese, e il poliziotto le chiede dove va. Lei gli risponde, lui comincia con la classica trafila di domande. Ogni tanto si gira verso il gruppo dei kurdi.
«Su ragazzi, per piacere!» dice e torna alla sua conversazione.
Questa volta è una donna poliziotto a esplodere.
«Se non salite sul treno, se non avete i documenti per prenderlo, andate via» urla.
E loro, i kurdi, arretrano. Si accalcano, tra il binario e l’ingresso della stazione. Aspettano tesi che parta il treno. Poi le carrozze si chiudono, si sente il fischio del capostazione e il convoglio comincia lentamente ad allontanarsi. I kurdi si disperdono per la stazione.
Rashid, guarda in basso. È imbarazzato. Per sé e per i suoi connazionali, costretti a stare in una terra che non gli appartiene, sempre in balia degli eventi.
Storia di Rashid
Rashid è un dublinese. Uno che la Germania e la Danimarca hanno rispedito in Italia, perché in base alla Convenzione di Dublino del 1990 l’asilo politico può essere chiesto soltanto nel primo paese comunitario nel quale chi fugge dalla persecuzione e dalla guerra mette piede. Per questo Rashid ha l’asilo politico in Italia, e vive a Ventimiglia dove lavora come muratore.
Rashid ha un sito Internet, in cui narra la sua storia. Non solo, ma con poche frasi racconta usanze della sua gente e riflette intorno all’ingenuità politica del popolo kurdo a fronte della spregiudicatezza delle grandi potenze internazionali.
«Ho deciso di fare questo sito perché su Internet si trova molto materiale sul Kurdistan, ma poco o nulla in italiano» dice Rashid.
Ma è anche un tentativo di comunicare con tutti quegli italiani che i kurdi se li vedono passare sotto casa, senza capire né da dove vengono né dove vogliono andare. Che non sanno perché sono costretti a fuggire dal loro paese, e non riescono neppure a fare distinzione tra un kurdo e un arabo.
Su Internet Rashid è Rashid Hawleri, che vuol dire Ra shid di Arbil. Così lo chiamano gli altri kurdi in Italia. E Arbil è una grande città del Kurdistan iracheno.
«E come dire Pino il napoletano» spiega Rashid. «Non scrivo il mio cognome perché ho delle persone da proteggere in Iraq: mia moglie, i miei figli, i miei genitori e fratelli».
E infatti Rashid era un attivista del Partito di unità nazionale (PUK). Nel Kurdistan iracheno il PUK e il PDK (Partito democratico del Kurdistan) rappresentano la quasi totalità dello schieramento politico. In Iraq Rashid era perito elettronico e frequentava la facoltà di ingegneria. Contemporaneamente lavorava in un’agenzia di cambio. Fino all’autunno del 1997 quando fu costretto a fuggire precipitosamente dall’Iraq. Da un paese dove i kurdi hanno i loro eserciti. Dove – come spiega sul suo sito – chi ha qualche soldo si ingegna per farne di più, chi ha pochi soldi sbarca sulle coste italiane, chi ha molti soldi si fa il suo esercito. E chi non ne ha si compra un kalashnikov.
Fermato a Mosul, in zona araba, Rashid venne consegnato nelle mani dei pretoriani di Saddam Hussein, i famigerati baschi rossi, una struttura militare autonoma con compiti di polizia. Quarantatré giorni di tortura: percosse, fili elettrici sui testicoli, la canna della pistola in bocca o sulla tempia. Alla fine cedette. Firmò un foglio nel quale accettava di fare la spia per Saddam Hussein. Poi ritornò ad Arbil e quella stessa notte lasciò cadere per le strade dei manifestini inneggianti a Saddam. Il giorno dopo decise di partire. Non appena calarono le tenebre salì su un taxi che lo portò fino alla frontiera con l’Iran. Non salutò nessuno, né moglie né figli. Non passò neppure per casa. Solo il padre, al mattino, era stato informato della sua decisione. Rashid aveva 23 anni.
Così ha inizio il suo tortuoso viaggio verso l’Europa. Un viaggio fatto di lunghi percorsi a piedi e spostamenti al buio, nascosto dentro un camion. Sei giorni per arrivare in Turchia passando per l’Iran. Una tappa costata 1.000 dollari. E un senso sconnesso del tempo, perché la notte si viaggiava e al mattino ci si fermava in una casa, per poi ripartire di nuovo dopo il tramonto. Da qui Istanbul. E poi la Grecia. E sempre così, il giorno ad aspettare, la sera a viaggiare.
«Tu paghi e loro ti portano» dice Rashid. «Ci sono voluti 5 mila dollari per venire in Italia».
Dopo di che Rashid giunse a Foggia. E da Foggia alla stazione Termini di Roma con il primo treno. E in ogni posto c’era un passeur, un uomo pronto a indicarti la strada, a guidarti fino alla prossima tappa. Spesso è lo stesso passeur a contattarti. A Roma Rashid fu avvicinato da un uomo che non aveva mai visto in vita sua.
«Tu vuoi andare a Ventimiglia» gli disse. «Ma se ci vai per conto tuo sicuramente tornerai indietro. E quando verrai a chiedere il mio aiuto, io non ti accompagnerò più. Qualunque cifra tu mi offrirai».
Ma i passeur sono persone bugiarde, spiega Rashid. Anche quando sono kurdi. Sono gente senza scrupoli, pronta a dire ogni tipo di menzogna. A volte dicono che conoscono la polizia di frontiera, che possono pagarla, che possono convincerla a chiudere un occhio. Per questo Rashid partì da solo per Ventimiglia, con l’Espresso delle ventitré. E dopo una settimana passò la frontiera senza problemi, a bordo di un treno. Con un amico con cui aveva diviso una parte del viaggio. Erano diretti verso la Germania dove c’erano tanti compaesani pronti a dare una mano. Poi da Nizza a Strasburgo, di notte. Senza neppure vedere la Francia. Duecento franchi e un tassista li accompagnò a Hoffenburg. Erano le nove del mattino, Rashid e il suo amico si fermarono in una stazione dei pullman ad aspettare che qualcosa accadesse, perché a quel punto non sapevano più dove andare.
Fino all’arrivo della polizia. Ma quando i poliziotti chiesero il passaporto Rashid disse che non lo aveva. Per questo lo portarono in un campo, dove lui e il suo amico si fermarono per una settimana. Poi furono trasferiti a Srindoff, un paesino vicino Norimberga.
E qui Rashid chiese finalmente lo status di rifugiato politico. Tre mesi passati in quel campo. Lavorare non poteva perché era in attesa di una risposta alla sua richiesta di asilo.
Poteva muoversi in un raggio di nove chilometri quadrati, e così quando non era impegnato in visite e controlli ingannava il tempo passeggiando per le vie di Norimberga.
Poi Rashid fu spostato nella città di Furth, e qui la polizia gli comunicò che era stato scoperto. Era passato per l’Italia. Doveva chiederlo lì l’asilo politico. Non poteva più restare in Germania. Ma Rashid in Italia non ci voleva tornare. Mangiare alle mense della Caritas, dormire per strada, non era questa la vita che aveva sognato. Per questo decise di fuggire di nuovo, di tentare la carta Danimarca.
Un altro viaggio nella notte, da Norimberga ad Hannover. E poi da Hannover a Finisburg. Da qui Rashid oltrepassò a piedi il confine, delimitato soltanto da un filo attraversato da elettricità a basso voltaggio, di quelli per tenere lontane le mucche. Un altro taxi, un altro incontro con la polizia, un altro centro di accoglienza. Altri mesi passati ad aspettare, nel grande palazzo che Rashid divideva con altri profughi di guerra. Colloqui, accertamenti, e poi un permesso di soggiorno della durata di un anno. Ma anche un ennesimo insuccesso, perché dopo sei mesi e nove giorni fu convocato al commissariato. Avevano condotto delle indagini, erano in contatto con la polizia tedesca, sapevano che veniva dall’Italia. Ed era lì che doveva tornare.
E un giorno di fine novembre del 1998, la polizia danese accompagnò Rashid in aeroporto con discrezione e in abiti civili. Poi cinque giorni bloccato all’aeroporto di Fiumicino. Non voleva chiedere l’asilo politico.
L’idea di restare in Italia lo atterriva, aveva visto troppi kurdi affamati e senza lavoro, incompresi e senza una comunità di riferimento. Rashid restò all’aeroporto fino a che non ebbe finito i soldi per mangiare.
La polizia gli diede cibo per due giorni, e poi lo lasciò al suo destino. Cinque notti passate a dormire sui sedili fra la gente in attesa di partire, senza un interprete kurdo, senza nessuno con cui poter comunicare.
«I want to go to Copenaghen» diceva ai poliziotti, ma quelli non gli rispondevano.
Il quinto giorno Rashid fece domanda per la concessione dello status di rifugiato politico, e fu libero di uscire. Un treno lo portò a Roma Termini e la prima notte la trascorse avvolto in un cartone. Fino a che un poliziotto non lo svegliò, e gli disse che sotto quel porticato non ci poteva proprio dormire. Allora si spostò sul piazzale degli autobus, e lì aspettò che facesse giorno. Era l’I dicembre, e faceva freddo.
I mesi che seguirono Rashid li trascorse a Roma. Ora il suo incubo si era davvero materializzato. La notte in un centro di accoglienza, il giorno in giro per la città. Tre autobus per arrivare fino alla stazione, tre autobus per tornare indietro al centro. E poi quell’odiata mensa della Caritas, dove mangiavano tutti i disperati. Così più passava il tempo, più aumentava la voglia di andare via.
A un certo punto decise di ripartire, di provare di nuovo la fuga attraverso la Francia. Certo la polizia lo conosceva, aveva già fatto domanda per l’asilo, ma cosa ci vuole a gettare i documenti? A diventare un altro, cambiare identità? Lo stesso treno per Ventimiglia, lo stesso passaggio per il giardino ornato di palme e di pini domestici, e il saluto frettoloso a una famiglia conosciuta ai tempi del suo primo tentativo. A quell’epoca il suo compagno di viaggio era stato ricoverato in ospedale e si era trovato in una stanza con un vicino di letto italiano circondato da una famiglia molto accogliente e ospitale. Così Rashid conobbe Michele, che era il figlio di quell’uomo malato. Nacque un’amicizia, Michele si offrì di aiutarli e di ospitarli, ma bisognava partire.
«Dove vai?» gli disse Michele questa volta. «Non capisci che la polizia ti fermerà di nuovo e ti rispedirà in Italia? Resta qui, non partire».
Dieci giorni dopo Rashid cominciò a lavorare come manovale. Dopo qualche mese era in regola. Andava a lavorare in bicicletta perché non aveva i soldi per comprare uno scooter. Anche quando i cantieri erano lontani, su in montagna, nei borghi che circondano la città di Ventimiglia.
Ma Rashid non è un muratore. È un perito elettronico che ha lavorato per anni in un ufficio di cambio. Conosce quattro lingue e vorrebbe continuare a studiare in Inghilterra. Quando ha tempo va ai giardini, incontra i kurdi iracheni, turchi, iraniani che passano di là. Se hanno bisogno di una mano, lui gliela dà. Parla un buon italiano e si offre come interprete ogni volta che occorre un medico, o magari acquistare un farmaco o il latte per i bambini. Ma chi è appena arrivato non sempre conosce altra lingua che il kurdo. Rashid li accompagna. E intanto stanno lì a parlare del Kurdistan che non c’è, di Barzani e di Talebani, i loro leader, di indipendenza e di autonomia. Sempre gli stessi discorsi.
Ma soprattutto si parla delle vie verso la Germania, di come non farsi scoprire. E Rashid ascolta e riflette. Sa che molti di loro dovranno tornare in Italia parecchie volte prima di farcela, e che forse non riusciranno a raggiungere mai le mete dei loro sogni.
Gli hanno proposto di fare il passeur, ma si è rifiutato di sfruttare chi ha bisogno. Disprezza e teme i passeur, anche se a volte sono necessari. Quando nei giardini ne arriva qualcuno in cerca di passeggeri, la contrattazione avviene lontano dai suoi occhi. Rashid non può denunciarli perché per molti rappresentano l’unica possibilità. La polizia ha sospettato di lui come sospetta dei pochi kurdi che si fermano stabilmente a Ventimiglia. E Rashid non ama la polizia e si sente umiliato dal trattamento che gli è capitato di ricevere o che ha visto riservare agli altri.
«Se c’è qualche italiano presente» dice «si limitano a guardare male. Ma quando nessuno li vede…».
Rashid sogna un Kurdistan autonomo, un paese da cambiare insieme a quelli che tornano dopo tanti anni passati in Europa. Ma una cosa per il momento è certa: non tornerà al lavoro, basta col cantiere. Non è la fatica a spaventarlo, ma la paura di lasciarsi abbrutire da una vita che non vuole. Ha chiesto a sua moglie di raggiungerlo in Europa, ma lei non se la sente. Del resto non avrebbe niente da offrire alla sua famiglia.
Un giorno anche Rashid se ne andrà. Questa volta calcolerà tutto, forse lo sta già facendo mentre parla lentamente e con aria assente. Conosce tutti quelli che arrivano, le loro storie, le strade che hanno percorso e quelle che vogliono percorrere. Ma anche lui una soluzione la deve trovare, perché ha 26 anni e deve cominciare a ragionare da uomo. E una cosa è certa, prima o poi l’Italia la deve lasciare.
I passeur
Il lungomare di Ventimiglia è quasi deserto. Giorni di mareggiata hanno devastato il litorale, che adesso è completamente invaso da rami, rifiuti e detriti. Ha smesso di piovere e un uomo in giacchetta avana passeggia tranquillo. Ha la testa grossa, il volto solcato da rughe profonde e tutti dicono sia un passeur. Lo accompagna un connazionale dai baffi sottili e il capo quasi calvo. Veste di un’eleganza stropicciata, è un kurdo ma la frontiera non la attraversa mai, o se lo fa è sempre per ritornare. Percorre il lungomare avanti e indietro, attraversa la strada che lo separa dai giardini pubblici, si muove tra i vialetti, parla al cellulare. Questo è il suo giardino. Tu guardi il passeur, lui guarda te di sfuggita. Il suo sguardo è bonario e indifferente, sa che non ha nulla da temere.
Andando verso Ovest, il lungomare termina con un sentiero sterrato che costeggia la scogliera. Alla fine del sentiero, a picco sul mare, c’è un edificio. Fino a qualche tempo fa era abbandonato e offriva rifugio a immigrati, profughi e tossicodipendenti. L’anno prossimo, completamente ristrutturato, sarà l’hotel «Le Calandre». Ma in questi giorni di pioggia i lavori sono bloccati. Un gruppo di ragazzi kurdi ci ha trascorso la notte. E adesso che è apparso il sole sono sul piazzale antistante l’hotel: giocano a tirare sassi nel mare.
Sulla stradina sterrata altri kurdi che vanno e vengono. Un paio di uomini trasportano buste della spesa. Un ragazzo corre agile e svelto tra le montagne di fango fresco. E poi, ripercorrendo la strada a ritroso, appare la sagoma alta, resa inconfondibile dalla giacca a vento rossa, dell’uomo che la sera prima contrattava i passaggi al giardino. Stessa giacca, stesso passo veloce di chi non ha tempo da perdere. Si dirige verso «Le Calandre», seguito a ruota da un paio di kurdi. Poi, a qualche centinaio di metri di distanza, ecco arrivarne degli altri. Un gruppo: dieci, dodici, quindici. Una processione lesta e frenetica, che non lascia spazio alle parole.
Infine un uomo più anziano degli altri, che fatica a tenere il passo. Un’ora fa era al giardino. Davanti a una fontanella, intento in lunghe e complesse abluzioni. Con la lentezza e la noncuranza di chi ha tempo da perdere e nessuno a osservarlo. Prima toglieva la scarpa destra, poi la calza corrispondente, si lavava un piede nell’acqua gelida massaggiandolo con cura e lo rimetteva, tutto bagnato, in quella stessa calza e in quella stessa scarpa. A quel punto sfilava la scarpa sinistra e ripeteva la stessa procedura. Come ultima cosa aveva messo le mani sotto l’acqua e se le era passate veloce sui vecchi pantaloni gessati. Ora eccolo qui, quest’uomo che corre verso il suo destino.
Il passeur bandito ma leale, protagonista dei romanzi di Francesco Biamonti, l’uomo che conosceva le vallate impervie, i passi nascosti e i sentieri sconosciuti, se mai è esistito non esiste più. Oggi a gestire il traffico dei clandestini è gente senza scrupoli. Grandi organizzazioni ramificate a livello internazionale, di cui il passeur locale costituisce spesso solo una pedina, uno dei tanti terminali per viaggi lunghi migliaia di chilometri. Un gradino al di sopra della bassa manovalanza, perché magari organizza e riscuote, ma lascia ad altri il lavoro rischioso, quello del passaggio vero e proprio. La do¬manda è forte e non c’è un racket che ne pretende il monopolio, sono altre e più remunerative le attività illegali da controllare. Questo lascia spazio all’intraprendenza individuale, perché per fare il passeur in fondo non serve molto: un furgone, un’automobile, la conoscenza dei luoghi, un po’ di fegato.
A volte basta perfino la disperazione. Un pensionato di ottantadue anni è stato fermato al confine con la Francia mentre trasportava undici kurdi col suo furgone. Voleva arrotondare il suo unico reddito, una pensione sociale insufficiente per arrivare alla fine del mese, e aveva accettato di portare i kurdi oltre frontiera per 300 mila lire. La commis¬sione gli era stata subappaltata da un uomo del Maghreb, che doveva averci guadagnato molto di più, visto che le tariffe oscillano tra le 200 e le 600mila lire a persona. Alla fine il basista se l’è squagliata, ma l’anziano, è stato fermato in Francia e denunciato per favoreggiamento dell’emigrazione clandestina.
Qualche volta ci prova un tassista. Come quello di Valle Crosia, che è stato arrestato nel 1999. Era la prima volta che
lo faceva, assicura un suo collega, fermo a bordo di un gros¬so taxi davanti alla stazione di Bordighera. Aveva accettato di portare quattro slavi fino a Nizza. Ha passato il confine, ha passato Mentone. Sembrava ormai cosa fatta. Poi al centro di Nizza. Lo ha fermato la gendarmerie. E loro, gli slavi, lo hanno accusato.
«Ora quest’uomo è rovinato» dice.
La polizia francese non è come quella italiana. Sono dei duri, quelli. E chi sbaglia la paga cara. Portare cittadini stranieri in Francia non costituisce reato in Italia. Non si ha né il dovere né il diritto di chiedere i documenti al proprio passeggero. Se poi si riesce a provare che quella corsa è stata pagata a caro prezzo, molto al di sopra della tariffa normale, la cosa cambia e il reato viene punito con il sequestro del veicolo. Ma in Francia è tutta un’altra storia: favorire l’ingresso dei clandestini comporta la confisca definitiva del veicolo e una condanna penale che può arrivare a tre anni.
Ora il tassista passeur piange sulla sua leggerezza. È nei guai fino al collo. Per sua fortuna era incensurato, e non dovrà scontare i due anni di galera a cui era stato condannato, ma ha pagato una penale di parecchi milioni a cui vanno aggiunte le spese legali. Ci ha rimesso anche il tassì e per dieci anni non potrà mettere piede in Francia.
«Gli è convenuto?» chiede il tassista di Bordighera. «Tu lo faresti per un milione?».
E poi racconta. Quante volte gli hanno chiesto di trasportare profughi kurdi oltre frontiera. Quante volte uomini slavi, maghrebini, gli hanno sventolato mazzette di centomila sotto il naso. Ma lui no, ha sempre detto di no. Troppo rischioso. E poi come si fa a tornare a casa tranquilli la sera, dopo avere sfruttato quei disperati? Non sono soldi che fanno gola. Certo, quando un poveraccio ti chiede di portarlo al confine, questo sì si può fare. È un cliente come gli altri, lo porti fino a dove lo puoi portare, perché non sta a te indagare sulla sua identità. E gli fai pagare la corsa a tariffa normale.
Non ha livore. Il suo appartamento è stato svaligiato da una banda di slavi qualche mese fa. Lui la capisce la disperazione, perfino il fatto di rubare può capirlo. Il cane no, però, quello non dovevano ammazzarglielo. E anche tagliare i materassi è stato un gesto gratuito. Il collega del tassista passeur si dice dispiaciuto per la sorte dei kurdi e di tutti quelli che sono costretti a lasciare il loro paese. Sembra proprio che sia sincero. Eppure in giro si dice che i tassisti, specie quelli di Ventimiglia, spesso e volentieri come secondo lavoro fanno i passeur. Sono voci che corrono in città, cose di cui nessuno si stupisce e che tutti dicono di sapere.
Nel 1999 la polizia italiana ha fermato quarantasette passeur. Al 31 agosto del 2000, invece, ne erano già stati fermati una trentina. Si tratta di italiani, francesi, kurdi, algerini e marocchini. Pesci piccoli e grandi, passatori indipendenti e manovali della criminalità organizzata. Possono essere perfino frontalieri, come vengono chiamati i lavoratori pendolari che ogni giorno si spostano verso la Francia o il Principato di Monaco. Migliaia di persone i cui volti sono familiari alle pattuglie di polizia che stazionano in frontiera e che possono approfittare della propria insospettabilità per fare di tanto in tanto un carico di kurdi. Oppure veri e propri basisti, come quello arrestato tempo addietro durante un’operazione congiunta fra le questure di Ventimiglia e di Trento. Viveva nella frazione di Peya, in una baracca di lamiera. Era kurdo. Un giovanotto robusto, con i baffoni e i capelli neri, vestito in maniera sciatta e informale, in tutto e per tutto simile a quelli che stazionano ogni giorno nel giardino. Ma era considerato una sorta di re, uno che muoveva le fila, che governava i movimenti degli altri passeur, e che riusciva a tenere i contatti con la Francia, l’Italia Meridionale, la Bulgaria, la Turchia, l’Ungheria, la Grecia e la Macedonia. Lo hanno preso intercettando le sue chiamate sul cellulare, la polizia era riuscita ad arrivare ai suoi numeri telefonici e le manette sono scattate allo squillare del telefonino.
C’è chi dice che dopo questo arresto la gestione si sia frantumata e che per ora prevalga la logica del fai da te. Ma c’è anche chi afferma che l’operazione in realtà si sia risolta in una bolla di sapone. Probabilmente è vero che chi in Italia tira le fila non ha bisogno di fermarsi a Ventimiglia. Gran parte dei kurdi che giungono al confine italo francese, dopo essere sbarcati sulle coste italiane, fanno scalo a Roma. Numerosi arresti hanno confermato che è da Roma che si diramano i tratti italiani di questi percorsi. Per chi ha molto da spendere c’è una documentazione falsa e un biglietto aereo diretto fino a Berlino, per gli altri il cammino della speranza è più accidentato e irto di difficoltà.
Il gioco dell’oca
Sono le otto di sera. Un ragazzo scende lungo la strada che da Ponte San Luigi porta oltre il confine con la Francia. È un riccetto, poco più alto di un bambino, che arriva trasci¬nando leggermente la gamba sinistra. Porta con sé una piccola valigia e procede con la stessa determinazione di chi sta per tagliare un traguardo. Passa davanti alla vecchia dogana italiana, che è chiusa e sembra ormai solo un ricordo dei tempi passati. Presto passerà davanti alla dogana francese. Lì le luci sono accese, i poliziotti sono al lavoro.
Dalle grandi vetrate illuminate si vedono quattro uomini in attesa. Sono seduti uno accanto all’altro, e come sempre aspettano pazienti. Questa dogana è ancora una dogana, e questi uomini se sono immigrati clandestini verranno rispediti nei loro paesi, se sono profughi kurdi verranno schedati e rimandati in Italia. Perché dall’Italia vengono ed è in Italia che devono chiedere asilo politico.
Tra poco sarà il turno del riccetto, che tenta di apparire disinvolto nella speranza di passare inosservato. Se nessuno l0 noterà, se nessuno gli chiederà i documenti, presto sarà a Mentone. Mentone che come prima città in territorio francese potrebbe essere lo specchio di Ventimiglia. Se non che ciò che a Ventimiglia è trascurato, a Mentone è lucidato a nuovo. Mentone ha il porto, Ventimiglia no. Mentone ha un immenso viale che costeggia il mare, i lampioni sempre accesi, locali dalle insegne sfavillanti e un casinò. A Ventimiglia dopo le otto di sera è difficile bere un caffè.
Ma Mentone è una città piccola e d’inverno, senza neppure la possibilità di confondersi tra la folla di turisti, ci vuole poco a essere individuati. E ci sono buone probabilità che il ragazzo dai capelli ricci venga fermato alla stazione, mentre tenta di salire sul primo treno diretto a Nord.
Meglio sarebbe arrivare a Nizza. Porto di mare, città cosmopolita, sempre affollata di gente, di giorno, di notte, d’estate, d’inverno. Ma Nizza è lontana, a sessanta chilometri in territorio francese, ci vuole un treno per arrivarci oppure l’aiuto di un passeur. E anche lì non è detto, perché può sempre capitare di incrociare una pattuglia, o qualcuno che faccia una soffiata.
Se il ragazzo dai capelli ricci, quasi sicuramente kurdo, verrà fermato a Mentone, a Nizza o al confine con la Germania sarà costretto a tornare in Italia. E come a volte succede nel gioco dell’oca verrà rispedito non al punto di partenza, ma all’ultima tappa del suo percorso, la casella da cui ha lanciato i dadi. Eppure non si darà per vinto. Getterà i documenti, si farà crescere la barba, si taglierà i capelli, prenderà il nome di suo padre o di suo nonno, ed ecco un uomo nuovo, pronto a provarci ancora. A lanciare un’altra volta i dadi. Fino a che non riuscirà a raggiungere la meta, a trascorrere quei famosi sei mesi in Germania, in Olanda o in Danimarca che gli consentiranno di presentare la domanda di asilo politico e lo metteranno al riparo da ogni espulsione.
È diffìcile dire quante persone transitino irregolarmente ogni anno per Ventimiglia. Nel 1999 ne sono state fermate 10 mila. Di queste più di 8 mila le ha fermate la polizia francese, meno di 2 mila quella italiana. A fine agosto del 2000 erano già quasi 7 mila, di cui 5 mila quelle bloccate dai francesi. Queste cifre però non ci dicono quanti passino realmente per Ventimiglia perché spesso la stessa persona viene fermata due, tre, sette volte. Poi cambia nome e fisionomia, e riprova ancora a passare il confine.
I kurdi sbarcano sulle coste pugliesi e calabresi, poi risalgono la penisola facendo tappa a Roma. Oppure entrano in Italia attraverso la porta di Gorizia, l’ultimo avamposto dell’Ovest e tagliano l’Italia settentrionale diretti verso la Francia. Alla fine di ottobre del 2000 il sindaco di Ventimiglia ha fatto una proposta che la stampa e i cittadini hanno considerato a dir poco bislacca. L’analisi della situazione era più o meno la seguente: i kurdi vogliono raggiungere la Germania, ma se appena varcano il confine francese vengono bloccati, la nostra città sarà sempre più costretta a farsene carico. Di conseguenza il sindaco suggeriva la creazione di una corsia diplomatica preferenziale che permettesse ai kurdi di arrivare in Germania attraverso l’Italia e la Francia. Una proposta che ha destato l’ilarità generale, ma che ai kurdi sarebbe piaciuto vedere applicata.
Sono tante le strade per passare il confine con la Francia.
A Ventimiglia l’Aurelia muore e si biforca in due routes, la prima costiera, l’altra parallela, più in altura.
Fino al 1997, prima del Trattato di Shengen, venivano percorse con le auto e i furgoni dei passeur. Ma il controllo scattava ai posti di dogana, Ponte San Ludovico e Ponte San Luigi. Oggi neanche ci si accorge di varcare una frontiera, le sbarre non ci sono più e il ragazzo dai capelli ricci è solo uno dei tanti che transitano ogni giorno. Ogni estate un concerto celebra l’Unione, il palco è montato in Francia e la platea in Italia, il biglietto di ingresso è caro.
Oggi il treno è diventato la soluzione più semplice. E anche la più praticata. Non bisogna pagare il passeur, non bisogna rischiare la vita. Ma bisogna pur sempre superare lo sbarramento della polizia italiana e poi di quella francese. E non è detto che ci si riesca. Per questa ragione le vie tradizionali non sono state mai del tutto abbandonate.
Una delle strade più battute è sicuramente la via degli scogli. Ci vuole il mare calmo e un paio di scarpe robuste, ma offre buone possibilità di successo. Strisciando e aggrappandosi lungo le scogliere aguzze e battute dalle onde dei Balzi rossi, si arriva in Costa Azzurra, proprio sotto le case dei vip.
Palazzine brutte e costosissime che deturpano la bellezza del litorale. Più di quarantamila anni fa qui c’erano uomini che senza saperlo traversavano un confine che ancora non esisteva. Sono state ritrovate tracce dei loro insediamenti, e ora alcuni scheletri quasi completamente ricostruiti fanno bella mostra di sé in un piccolo museo etnografico. Un museo in loco, situato sopra quelle stesse spiagge rocciose e private che i ricchi si godono di giorno e i kurdi percorrono di notte.
Da sempre gli uomini sono andati di qua e di là delle Alpi Marittime, camminando lungo i sentieri tracciati sui dirupi e le mulattiere. Spesso lo hanno fatto di notte, approfittando della complicità delle tenebre. Olivetta San Michele, Fanghetto, il Passo del Muratore e poi più su, La Gardieura, Castel di Lupo e il Passo del Porco, il Passo delle Corna a oltre 1.000 metri, il monte Grammondo a 1.400. Montagne impervie e ostili, dove negli ultimi anni è tornato ad abitare il lupo. Cosparse di bunker, sperduti avamposti costruiti in tempo di guerra e poi abbandonati, e di casolari che hanno sempre offerto un rifugio sicuro a chi aveva bisogno di un tetto per dormire e un posto per nascondersi.
Era qui che passava la via del sale, un traffico legato alle città di Tolone e Marsiglia. E di qua passavano anche sigarette, farina, vino, formaggi e liquori, cioccolato, caffè, riviste e polvere da sparo. Tutti beni sottoposti a dazi e gabelle, che le montagne aiutavano a sfuggire. Era il dominio di Richard il Giornalista, un gangster corso che tra gli anni Cinquanta e Sessanta controllava il contrabbando tra Nizza e San Remo. Montagne abituate al traffico notturno, battute dalle bande dei contrabbandieri e dalle guardie di finanza che si mettevano sulle loro tracce. Poi diventarono comodi corridoi per il flusso di denaro sporco, armi e droga. È dato per scontato che da questi valichi negli anni Settanta siano transitati i protagonisti della strategia della tensione diretti verso la Spagna, e tanti accusati di terrorismo che cercavano scampo nella sicura Francia.
Oggi, oltre ai kurdi, a passare sono per lo più senegalesi, kosovari, slavi e quell’onda informe di nordafricani e cinesi che oscilla periodicamente tra il Ponente ligure, la Costa Azzurra e la Spagna, seguendo i ritmi e le richieste del mercato.
Luoghi impervi e suggestivi dove la cronaca si intreccia spesso con la leggenda. Fino a quattro anni fa un uomo pretendeva di regnare su queste alture. Era un algerino di nome Hassan, ma preferiva farsi chiamare il Dio della montagna. Eppure non si trattava di un povero pazzo. Era un rapinatore solitario, un brigante. Si dice che intercettasse immigrati, profughi e fuggitivi, e dopo averli derubati li scaraventasse giù dalle montagne. Forse Hassan è ancora recluso nel carcere di Marassi o molto più probabilmente è tornato libero perché non ci sono prove di quegli omicidi. E la sua storia non fa altro che alimentare un’altra macabra leggenda. Quella dei tanti cimiteri dimenticati che custodiscono le ossa di “clandestini” caduti nei burroni, gente di cui nessuno denuncerà mai la scomparsa. Che nessuno verrà mai a cercare. A cancellare le tracce del loro passaggio hanno provveduto gli animali selvatici, il tempo, le acque dei torrenti.
Saranno leggende, ma a guardarle di notte quelle montagne, con la pioggia dell’inverno che viene giù e sembra non volersi mai fermare, con quelle pareti grigie e levigate che si perdono in burroni senza fondo, fanno davvero rabbrividire. E viene da pensare a Triora, il paese delle streghe, chiamato così per via di un processo per stregoneria avvenuto nel 1587, come si legge nei depliant turistici. Ma viene da pensare anche al Passo della Morte, dove sembra che negli ultimi cinquanta anni abbiano lasciato la vita più di cento fuggiaschi. È il passo di montagna più vicino alla costa. Nessuna carta ne fa menzione, tutti lo conoscono, ma nessuno racconta di averlo valicato. Lo si può scorgere salendo per il borgo di Grimaldi e poi attraversando il viottolo tortuoso che porta verso l’autostrada. Un dente grigio scuro che genera inquietudine. Un sentiero stretto e scosceso, un alternarsi di saliscendi che costeggia uno strapiombo alto centocinquanta metri. E c’è un punto dove le luci di Mentone non arrivano, e diventa impossibile sia andare avanti che tornare indietro.
A volte i kurdi preferiscono la ferrovia. O meglio la strada che costeggia le rotaie. Una via dritta e all’apparenza sicura, ma densa di insidie e di pericoli. Per un tratto è quasi una passeggiata, con la luce della luna che illumina i binari. Ma poi lo spazio per camminare si restringe. Se ne dicono molte in proposito: c’è chi afferma che il rumore del mare copra quello dei treni in arrivo. Chi sostiene che i treni sono silenziosi e veloci, e quando ti accorgi del loro passare è troppo tardi. E chi ricorda che è impossibile capire da quale direzione arrivi il treno. Basta una distrazione e il viaggio termina in maniera atroce.
E di questo che parlano i kurdi al giardino, aspettando le lunghe giornate che li separano dalle notti. Quando sono stufi di parlare di Barzani e di Talebani, iniziano a misurare le soluzioni. Alcune di queste storie sono giunte fino alle loro orecchie. A volte gliele raccontano gli stessi passeur, per convincerli a mettersi nelle loro mani.
Storia di Murad
Murad una soluzione l’ha trovata. Ha deciso di restare a Ventimiglia e ha ottenuto asilo politico in Italia. Lavora come bracciante nelle aziende floristiche della Riviera. Dopo tanti lavori in nero, ora è in regola e può permettersi l’affìtto di una casa vera. Un’abitazione vecchia, ma un posto tutto suo e non un semplice letto in un appartamento da dividere con altri ragazzi profughi o immigrati. Non è tanto, ma è già qualcosa. E soprattutto Murad non dovrà più sottoporsi all’umiliazione di essere fermato dalla polizia, di farsi trovare senza documenti. Di essere trattato, nella migliore delle ipotesi, come un bambino monello che tenta di farla in barba ai poliziotti, di passare il confine alla chetichella. E quando va a informarsi sull’orario di un treno alla stazione, quando i poliziotti lo fermano minacciosi, lui può guardarli negli occhi e affermare: «Io sono Murad, e sono in regola. Questo è il numero di telefono del mio datore di lavoro, se volete potete controllare».
Murad lavora nei campi. È quello che ha fatto per tutta la vita. Perché in Turchia faceva il pastore, e se volesse raccontare tutto ne avrebbe tante e troppe da dire. Portava le pecore e le capre a pascolare in montagna, questo era il suo compito. Era il 1993 e aveva diciotto anni. La situazione era tesa da un pezzo e gli scontri con l’esercito turco erano aumentati. I guerriglieri del PKK, il Partito dei lavoratori kurdi, si erano spostati sulle montagne di Bingol dove viveva la famiglia di Murad. Così l’esercito turco aveva cominciato a farsi vivo sempre più spesso. Minacciava gli abitanti delle montagne per convincerli a prendere le armi contro i guerriglieri e diventare guardie di villaggio.
A quel tempo il villaggio di Murad contava circa cento case e mille anime. Ma la gente si rifiutava di combattere contro i guerriglieri perché tra questi c’erano i loro cugini e i loro parenti. Perciò quando i guerriglieri scendevano dalla montagna aprivano loro le case, gli offrivano cibo, scarpe e vestiti, e tutto ciò di cui avevano bisogno.
Cosi l’esercito turco occupò il villaggio. Entrarono con i carri armati e trascinarono gli abitanti in piazza. Bastonarono le persone sospette, e soprattutto il sindaco che era un uomo semplice e non sapeva neppure parlare in turco. Allora si fecero avanti i traditori. Andarono in caserma e denunciarono tutti quelli che avevano ospitato i guerriglieri. Era una cosa abituale, perché anche tra i kurdi ci sono traditori. Anche il padre di Murad, sua madre, le sue sorelle e i suoi cugini sono stati spesso torturati. Con l’acqua fredda, col ghiaccio, con i bastoni e con la corrente elettrica. Legati e picchiati sulle piante dei piedi per costringerli a parlare.
Era la guerra. A volte l’esercito bombardava le montagne, senza curarsi dei pastori. Ammazzavano i pastori e i cavalli senza neppure rendersene conto. Una volta ne uccisero quattro per sbaglio, poi gli misero accanto delle armi e la televisione nazionale turca disse che si trattava di quattro guerriglieri. Era avvenuto tutto a tarda sera, durante la stagione calda, quando i pastori trascorrono la notte all’aperto coi loro animali. Passano il tempo riuniti intorno al fuoco. Ma è lo stesso fuoco a denunciare la loro presenza. I soldati turchi lo vedono da lontano e sparano. E poi dicono che si trattava di un manipolo di terroristi.
Murad era un simpatizzante del PKK. Non era un responsabile e neppure un vero e proprio membro del partito, perché non ne conosceva esattamente la struttura. Ma era soprattutto uno che voleva combattere per i suoi diritti. Parlare kurdo, essere kurdo, vivere in una terra che si sente propria. questo significa esercitare i propri diritti. Ma lo Stato turco voleva che prestasse il servizio militare, la polizia lo teneva sotto controllo, l’esercito gli chiedeva di diventare guardia di villaggio. O prendete le armi contro i guerriglieri o dovete andarvene di qua, minacciavano. Bruciate pure le nostre case, ma noi non combatteremo mai contro i nostri parenti, rispondevano loro.
Così Murad decise di andarsene. Si sentiva perseguitato nel suo paese. Ma ci vollero due anni per organizzare il viaggio, perché bisognava trovare i soldi e le persone giuste.
Ogni tanto al villaggio arrivava qualcuno. Erano i passeur turchi, la mafia collusa col governo. Chiedevano chi volesse andare in Germania, in Francia o in Olanda, e chi si sentiva in pericolo andava. Andò via perché non voleva finire in prigione, e non per ragioni economiche. Non gli mancava nulla a Bingol, la sua famiglia aveva duecento pecore, venti capre, dieci mucche, un asino, e poi giardini, campagne e cavalli.
Fu suo padre a dargli il denaro, 5 mila marchi che dovevano portarlo in Germania. I kurdi turchi, a differenza di quelli iracheni, cercano di predisporre ogni singolo particolare in anticipo. Un viaggio ben organizzato che li porti direttamente da Istanbul in Germania.
Murad giunse a Istanbul e affidò 3 mila marchi a un passeur. Gli dissero che sarebbe partito in settimana, ma dovette aspettare quattro mesi. Lunghi mesi trascorsi in un vecchio albergo mentre i passeur turchi tentavano di mettere insieme un numero sufficiente di persone per riempire un intero camion. L’impresa doveva valere la spesa. Quando giunsero a ventisette persone, partirono.
Una notte condussero il gruppo a Kadekoy, un quartiere di Istanbul. Gli dissero di salire su un vecchio camion che li avrebbe portati fino in Germania. Il camion si imbarcò su una nave, e dopo cinque giorni giunse in Italia. Era un camion che trasportava marmo, e i kurdi mangiavano pane con le olive. Sbarcarono nel Salento il 26 aprile del 1995, e non sapevano neppure dove si trovassero. Attesero pazienti che il camion si rimettesse in viaggio verso la Germania, ma dopo due giorni l’autista non si era ancora fatto vivo. Erano ormai sette giorni che erano lì, a dormire sulla pietra e senza un bagno.
Alla fine i kurdi capirono. Erano stati imbrogliati, con quel camion in Germania non ci sarebbero mai andati. Allora si decisero, ruppero il telone e saltarono fuori. Si trovarono su una spiaggia, ventisette uomini spaesati senza né valigie né documenti. Venivano tutti dalle città di Bingol e di Lazar. La spiaggia era circondata da un filo di ferro. I kurdi lo scavalcarono e poi decisero di dividersi. Un gruppo così grosso dava troppo nell’occhio, perciò dieci andarono da una parte e diciassette dall’altra.
A questo punto Murad non aveva più un soldo. I marchi che non aveva dato ai passeur li aveva spesi durante il lungo soggiorno a Istanbul. Non aveva neanche i soldi per mangiare. Quando il gruppo dei kurdi, sporchi e stremati, giunse nel primo centro abitato venne immediatamente fermato dai carabinieri. Qualcuno che aveva ancora qualche marco chiese a un appuntato di andare a comprare da mangiare. Passarono la notte sul pavimento della caserma, e la mattina gli consegnarono un foglio in cui era scritto che avevano quindici giorni di tempo per partire dall’Italia. Poi li lasciarono andare.
I kurdi allora si dispersero, e Murad restò con un amico. Rimasero una settimana nel Salento, dormendo sulla spiaggia e senza quasi toccare cibo. Poi si decisero ad andare a Milano, dove vivevano dei compaesani. Presero il treno senza pagare. Ogni volta che un controllore chiedeva il biglietto, scendevano alla stazione più vicina e aspettavano il treno successivo. Tre giorni dopo erano a Milano. Qui i loro amici erano in grado di indirizzarli. Sapevano indicargli dove era una mensa, dove era una Caritas. Passarono due notti in una mensa e poi qualcuno gli disse che a Ventimiglia era stato allestito un campo di accoglienza per i profughi kurdi. E loro decisero di andarci, perché a Milano non avevano nulla e Ventimiglia dopo tutto era al confine. All’epoca Murad pensava ancora di fuggire in Germania.
II campo si chiamava Campo Roma. Tramite la Croce Rossa Murad finì in ospedale a Genova per un problema alla guancia che risaliva alle torture che aveva subito da bambino. Passò circa due mesi in ospedale, Murad, e in questo periodo conobbe l’Italia. O meglio conobbe della gente che gli ispirava fiducia e si convinse che in questo paese si stava bene. In Germania aveva parenti, cugini e compaesani, ma lui decise comunque di chiedere asilo politico in Italia. Cambiò idea all’improvviso. Gli altri volevano andarsene perché l’Italia non gli dava una casa, un lavoro, alcuna garanzia. Murad decise di restare perché aveva trovato degli amici. Aveva avuto pazienza, aveva dormito alla Caritas, aveva accettato l’aiuto della Croce Rossa. In Germania sarebbe stato né più né meno che un immigrato come tanti altri. In Italia aveva incontrato della gente a cui interessava davvero la sorte dei profughi kurdi.
Murad vive a San Lorenzo, un piccolo borgo che sovrasta il quartiere vecchio di Ventimiglia. Si sente solo a volte, ma da casa sua c’è un panorama mozzafiato. Si vede lontano, si vede il mare. Si vede la scia delle navi dirette verso i luoghi più remoti. Ma Murad è arrivato, presto sarà un cittadino italiano a tutti gli effetti e per il momento il suo viaggio si ferma qui, sulla cima di queste colline.
Fine
È venerdì mattina. A Ventimiglia è giorno di mercato. Banchi strapieni, prodotti veri o contraffatti che i francesi vengono ad acquistare fin da Parigi. Il traffico blocca il centro, sarà così per tutto il giorno.
E meglio andarsene sul lungomare, per cercare di capire se il tempo migliorerà. I rami che riempivano la spiaggia sono stati bruciati. C’è ancora odore di fumo. Il fiume Roia si è fatto grosso e marrone, come non era da anni. Gli arenili sono fangosi.
La foce del fiume è tagliata da un piccolo ponte pedonale. Sotto il ponte una donna alta e bionda, dal corpo legnoso, approfitta della morbidezza del fango per piantare una tenda a igloo lungo la sponda. Una sponda che può essere in ogni momento sommersa dalla piena del fiume. Ha un cane con sé, e le sue cose sono ammucchiate in un carrello da supermercato. Si muove con gesti precisi, come un’anziana esploratrice di paludi. E sotto quei movimenti calibrati le pareti afflosciate della tenda cominciano a tendersi. Comincia ad assumere l’aria di una casa.
Sotto al ponte, in pochi metri quadrati, si ammucchiano uccelli di vario genere. Anatre, piccioni, gabbiani, germani, e un cigno solitario. Si spostano insieme, grassi e pesanti, uniti da uno strano collante di gruppo. Non si curano di quello che accade intorno a loro. Non se ne cura la donna. Se l’acqua sommergerà la tenda, lei fuggirà dall’altra parte del ponte. O nel giardino. O alla stazione. O all’hotel «Le Calandre», che domina il mare dal suo picco roccioso.

Stefano Galieni & Antonella Patete