Delta del Niger

Il vero prezzo della benzina

- 25 Novembre 2012

Ecco chi paga davvero il prezzo più alto per la benzina. Il presente durissimo del delta del Niger. Le responsabilità delle multinazionali. Le (re)azioni possibili.

Fare il pieno è per molti un gesto abituale, che al massimo suscita rabbia per via del costo, sempre più elevato, del carburante. Eppure c’è chi, per la nostra benzina, paga un prezzo molto più salato: per buona parte dei 31 milioni di persone che vivono nel Delta del Niger, infatti, l’estrazione dell’oro nero si è rivelata una maledizione.
Ken Saro Wiva. Qualcuno si ricorda, per esempio, di Ken Saro Wiva, il poeta nigeriano impiccato il 15 novembre 1995 insieme con otto compagni del Movimenti per la sopravvivenza del popolo Ogoni che si opponeva in modo nonviolento alle devastazioni della sua terra a opera della Shell? La multinazionale si è sempre chiamata fuori da ogni responsabilità, anche se ha accettato di risarcire le famiglie per evitare il processo. Ma non è l’unica colpevole di un disastro ambientale che dura da 50 anni e al confronto del quale quello del Golfo del Messico di due anni fa diventa quasi una piccola cosa (per rendersene conto basti pensare che, nello stesso periodo, la rottura di un oleodotto della Exxon Mobil in Nigeria provocava la dispersion dell’equivalente di 700mila barili, contro i 150mila della British Petroleum). I “mandanti” sono le multinazionali del petrolio: Shell, Esso, Chevron, Total e anche la “nostra” Eni, di cui lo stato è azionista di riferimento (32%). E la cosa ci riguarda da vicino, perché il 20% del petrolio estratto in Nigeria viene venduto sul mercato europeo.

Il delta dei veleni. 
L’argomento è stato oggetto di un dibattito pubblico organizzato qualche settimana fa a Milano dal Coordinamento Nord Sud del Mondo, da Re: Common e da Altreconomia, con la partecipazione di Amnesty International. L’obiettivo era sensibilizzare il Comune di Milano, che frequentemente si avvale della sponsorizzazione dell’Eni per realizzare le sue iniziative (per esempio, i musei gratuiti la scorsa estate). Le immagini di Oil for nothing (il documentario della CRBM proiettato nel corso della serata e che potete vedere anche voi a questo link) sono impressionanti. A causa dei continui sversamenti la terra non esiste più: è una poltiglia oleosa che uccide piante, animali e esseri umani. Nei siti più inquinati sono sparite persino le zanzare. I ricercatori dell’Unep (Programma delle nazioni Unite per l’Ambiente) hanno visitato oltre 200 località dell’Ogoniland, analizzato l’acqua e il suolo di 69 siti e incontrato 23mila esponenti delle comunità locali, evidenziando in un rapporto gli effetti disastrosi dell’operato delle compagnie petrolifere. In 49 siti il terreno è pieno di idrocarburi per la profondità di 5 metri, il pesce è sparito e in certe località il benzene, cancerogeno, è 900 volte più alto del limite previsto dall’Oms. Le compagnie petrolifere insistono sulla tesi che la principale causa delle perdite di petrolio sarebbero i sabotaggi e i furti da parte dei locali: una tesi discutibile e di parte, che li mette al riparo dall’obbligo (previsto dalla legge nigeriana) di risarcire le comunità locali.
Il villaggio di Goi, nell’Ogoniland, è abbandonato dal 2009. Un tempo la comunità di Bodo sopravviveva al 60% grazie alla pesca, ma adesso i pesci sono morti tutti: i pescatori devono andare in mare aperto, spingendo a mano per ore piccole imbarcazioni adatte alle acque basse del delta, non all’oceano. Manca l’acqua pulita per bere e per irrigare i campi.

Il paradosso del gas flaring. Fino a 50 anni fa il delta del Niger era una terra fertile e incantevole.  Le famiglie vivevano agevolmente di agricoltura e pesca e vendevano il surplus. Oggi stentano a sopravvivere. Le comunità locali non hanno ricevuto nessun vantaggio dalla presenza delle corporation del petrolio: pochissimi posti di lavoro e quasi nessuna infrastruttura, se non i pochi chilometri di strade che servono a trasportare i materiali industriali agli impianti. E, come se non bastasse, spesso la terra viene espropriata dalle compagnie senza pagare le giuste compensazioni: nel 2006, per esempio, la Total ha preso possesso di 8 dei 17 villaggi della comunità Obog, recintandoli con il filo spinato. Inizialmente si è parlato di risarcimenti ma la questione poi è stata archiviata.
Il vero paradosso, in questo quadro a tinte fosche, è che il gas che viene estratto insieme al petrolio, e che potrebbe essere usato per dare energia elettrica e calore alle comunità locali, viene invece bruciato, avvelenando l’aria e gli esseri umani. Non è un caso che l’aspettativa di vita, in questa zona, non superi i 40 anni. E’ il famigerato fenomeno del gas flaring, illegale dal 1979 in Nigeria. Secondo la normativa, entro il 1984 tutte le compagnie petrolifere avrebbero dovuto abolirlo: nessuna l’ha fatto. Hanno continuato a rinviare, adducendo scuse su scuse ma sostanzialmente nella convinzione che il potere economico sia un’ottima garanzia di  impunità. Ventitre miliardi di metri cubi di gas vanno in fumo ogni anno. Un fumo che contiene benzene, diossina, sulfuri e varie altre sostanze tossiche. Per le imprese è il sistema più comodo e meno costoso per eliminare il gas, mentre la popolazione è costretta a bruciare kerosene, carbone e legna, aggiungendo altro inquinamento e CO2.

E l’Eni? La “nostra” multinazionale sembra comportarsi esattamente come le altre. «Sul suo sito aveva annunciato di avere abolito il gas flaring e messo in funzione una centrale a Ebocha per riutilizzare il gas», spiega Elena Gerebizza di Re:Common. «La centrale effettivamente è stata costruita ma, secondo la popolazione, fino a poco tempo fa non era ancora entrata in funzione. Nel frattempo il gas flaring continua». Un altro impianto a gas è stato realizzato a Okpai, nell’area di Kwale, nell’ambito del Clean Development Mechanism (che permette di acquisire ed eventualmente cedere “crediti di carbonio” in relazione alla riduzione di C02). Si tratta di una centrale da 480 megawatt per la quale ha già incassato e sta rivendendo i “crediti di carbonio”. Ma sembra che la riduzione di emissioni sia inferiore a quella prevista. «Sembra anche che non stia mantenendo l’impegno di rifornire di energia i villaggi nel giro di 50 km, ufficialmente a causa dei conflitti tra le comunità locali», dice Gerebizza. «I locali però, come spesso accade, danno un’altra versone: tensioni e conflitti sono una conseguenza e non la causa della mancanza di energia. Nel 2000, infine, Eni aveva firmato un accordo con la comunità kwale per l’assunzione di personale locale. A noi al momento risultano solo due posti di lavoro».

L’Eni, interpellata da Corriere Immigrazione, sottolinea di essere stata «la prima oil company estera ad avere attuato un piano per la valorizzazione del gas naturale in associazione all’estrazione del petrolio» e dichiara di avere intenzione di ridurre il gas flaring dell’80 per cento (rispetto alla produzione del 2007) entro il 2015, ma in sostanza riconosce di ricorrere ancora questa pratica che pure è vietata dalla legge. Fa sapere che la centrale di Ebocha è adesso in funzione e che «il progetto di elettrificazione dei villaggi prossimi alla centrale di Okpai, che consta nella realizzazione delle infrastrutture per il trasporto e la distribuzione dell’elettricità, è prossimo al completamento (90% di realizzazione)». Per quanto riguarda le assunzioni a Kwale, osserva che non vanno considerati solo i posti di lavoro creati direttamente ma anche quelli determinati indirettamente e dall’indotto, che sarebbero centinaia. Nessuna risposta invece era stata data dai vertici aziendali a Godwin Uyi Ojo, direttore dell’associazione nigeriana Environmental Rights Action, che “irrompendo” all’ultima assemblea degli azionisti, lo scorso maggio a Roma, aveva sollevato questioni molto pesanti: i finti sabotaggi per non pagare i risarcimenti, l’accaparramento del gas per venderlo all’estero invece di usarlo per le necessità locali e i traffici illegali di petrolio.

Ma c’è chi passa a vie legali. La comunità Idu ha presentato il caso Agip all’Alta Corte Federale nel 2008. La comunità di Bodo, in Ogoniland, ha intrapreso una class action contro Shell per due massicci sversamenti dovuti alla rottura dell’oleodotto quattro anni fa. Altri quattro agricoltori e pescatori nigeriani hanno denunciato due anni fa la Shell presso un tribunale civile dell’Aja. La condanna della Chevron da parte del tribunale di Lago Agrio, in Ecuador, a risarcire le comunità locali con 18 miliardi di dollari per i danni ambientali provocati dall’estrazione di petrolio è un precedente importante e fa ben sperare.
E noi cosa possiamo fare? «Anzitutto cercare di ridurre radicalmente i consumi di combustibili fossili e fare pressione perché venga avviato un serio confronto con le comunità locali, che chiedono da anni che il petrolio venga lasciato dov’è. E poi premere sul governo italiano, azionista di riferimento dell’Eni, perché venga rispettata la legge nigeriana sull’eliminazione del gas flaring, sulle bonifiche e i risarcimenti», risponde Elena Gerebizza. Anche Amnesty International si è mossa su questo tema: «La responsabilità sociale delle imprese è al centro della campagna Io pretendo dignità, che riguarda i diritti economici e sociali», spiega Martina Rogato. «Il comportamento delle corporation nel delta del Niger viola il diritto degli abitanti a una vita dignitosa, al lavoro e alla salute. La campagna chiede alle imprese non solo lo stop al gas flaring, le bonifiche e i risarcimenti, ma anche trasparenza verso le comunità locali e una valutazione preliminare non solo dell’impatto ambientale ma anche di quello sui diritti umani delle comunità localii». L’appello può essere firmato sulla pagina web di Amnesty. Un altro appello urgente, che riguarda il delta del Niger è quello di Avaaz.

Per saperne di più: Il delta dei veleni, di Luca Manes e Elena Gerebizza, edito da Altreconomia.

Sandra Cangemi