Milano

L’ostello senza frontiere

- 12 Maggio 2013

A Milano, in zona Sempione, all’inizio della piccola via Chieti, c’è una palazzina che non passa inosservata. Al secondo e terzo piano, lavori in corso: ma ancora per poco. Al primo (si sale su per una scala bianca, alle pareti una mostra) una sala luminosa e allegra (tanto bianco e qualche tocco acceso di colore), il bancone di un bar, tavolini e sedie, libri dappertutto e, scritta sul muro, in alto, una frase di Shakespeare che, non a caso, è anche il motto della famosa libreria parigina Shakespeare and Company: «Be not inhospitable to strangers, lest they be angels in disguise». Un inno ad accogliere l’ospite a braccia aperte. E questo infatti è un ostello. Con annesso CafTè Letterario. È il Gogol’Ostello (www.facebook.com/gogol.ostello) e se l’è inventato Asli Haddas, 34 anni, italiana di madre eritrea e padre italo-etiope (i genitori si conobbero ad Asmara). Il CafTè è già aperto. Le attività culturali (scambio libri, aperitivi in lingua straniera, presentazioni, cineforum), che Asli organizza insieme all’amico Tiziano Bienati, sono già iniziate. Con l’ospitalità (ci sono cinque stanze con bagno, per un totale di 24 posti letto) si comincia a fine maggio.

È riuscita ad avviare questo progetto grazie al microcredito: com’è andata?
«Lavoravo in un’azienda come tecnico informatico: quando è entrata in crisi, ho iniziato a lavorare a questa idea. Tramite l’associazione L’albero delle genti sono entrata in contatto con la realtà del microcredito, che può essere un’alternativa alle banche. Queste, infatti, se sei una startup, ti chiedono tre anni di bilancio, oppure un grosso anticipo o delle notevoli garanzie. Non avendo niente di tutto ciò, ho contattato PerMicro. Ho presentato il progetto e loro hanno valutato la validità della mia idea. Ho fatto molti colloqui, discusso il mio business plan. Alla fine, mi hanno concesso il finanziamento. Volendo realizzare un Ostello, non era sufficiente: ma è servito per tornare in banca e ottenere, a quel punto, un aiuto anche da loro. Insieme al mio capitale iniziale, è bastato per partire. Il problema è stato trovare qualcuno che mi affittasse uno spazio: ho incontrato molta diffidenza, mi dicevano: “Non sei del settore, non ci pagherai l’affitto”. Finché il proprietario di questa palazzina si è appassionato all’idea».

Lei che cosa aveva in mente?
«Un posto accogliente come una casa, pieno di libri. La mia idea è di creare uno spazio di condivisione tra viaggiatori e residenti. E come le fai incontrare le persone? Attraverso iniziative culturali. Vorrei unire la gente attraverso la cultura declinata in tutte le sue forme: arte, foto, libri, film, viaggi… il cibo che prepara mia madre!»

A che tipo di viaggiatore si rivolge?
«A quello curioso, che abbia voglia di conoscere altre persone e un’altra città. Al pian terreno ci sarà un Info Point e offriremo anche percorsi turistici alternativi per Milano».

E nel CafTè Letterario a chi vuole dare spazio?
«Per i libri, penso ad autori emergenti e, per il cineforum, a film che affrontino argomenti da punti di vista inediti. In generale mi interessano gli sguardi nuovi sul mondo. Parleremo di nuovi cittadini, nuovi tipi di lavoro, nuovi modi di viaggiare».

A proposito di nuovi cittadini, lei come definisce la sua identità?
«Non mi piace definirmi. Quello di darsi un’etichetta è un vizio: creare uno spazio circoscritto mi dà fastidio, mi piace includere più che escludere. Amo la condivisione. Certo, io ho un punto di partenza: la cultura etiope, eritrea e italiana. Mia madre mi parla in tigrin, io le rispondo in italiano… Non ho problema di radici, mi piace Milano, ma non solo: non avrei problemi a trasferirmi altrove. Ho contatti con la comunità eritrea, ma anche con molte altre: quella brasiliana, per esempio… Mi piace intrufolarmi in altri mondi, che in qualche modo sento anche miei».

Le sembra che gli italiani siano pronti per una società multiculturale?
«C’è chi ha la consapevolezza che stiamo andando in quella direzione perché si rende conto che il mondo è sempre vissuto di contaminazioni. Altri fanno resistenza, basti guardare alla discussione sullo ius soli: secondo me non fornire dei documenti a chi nasce in Italia vìola un basilare diritto umano. Comunque la direzione è quella di un mondo misto, e non è una novità: le contaminazioni ci sono sempre state, è sufficiente esaminare le lingue per trovarvi le tracce dei popoli che sono susseguiti su un territorio. In tigrin per esempio ci sono parole che si possono dire solo in italiano: il vassoio è la “guantiera”, il cassetto è il “tiretto”. A nessuno verrebbe in mente di non usarle perché ricordano un certo passato. Fanno parte della storia».

Come pensa di coinvolgere persone ancora diffidenti verso culture diverse dalla propria?
«Offrendo qualcosa di nuovo. Il problema di Milano è che ci sono dinamiche da comunità: ognuno frequenta le persone del proprio ambiente. Dobbiamo uscire da questa ottica e guardare cosa succede intorno a noi. Come? Io, con il mio Ostello, voglio stimolare la curiosità proponendo iniziative diverse, come per esempio gli aperitivi in lingua. Si tratta di piccoli “inviti” per spingere le persone a trovare il coraggio di andare oltre quello che già conoscono».

Lei di coraggio ne ha avuto…
«Ognuno di noi deve correre qualche rischio. Dopo la crisi della mia azienda potevo cercare un altro lavoro, uno qualunque, come fanno tanti. Oppure potevo rischiare. Che poi… cosa c’è da rischiare, se puoi anche migliorare?».

Gabriella Grasso

 

 

Articolo già uscito su Corriere Immigrazione