Letture meticce

Banlieu noire

- 26 Maggio 2013

Si intitola Arab Jazz ed è un avvincente poliziesco ambientato nel 19° arrondissement di Parigi, zona ad alto tasso di immigrazione. Intervista all’autore.

Il punto di partenza è, ovviamente, un omicidio. Intorno ad esso, sullo sfondo di una città multiculturale (quasi nessuno dei personaggi ha esclusivamente sangue francese), si dipana una trama che vede integralisti religiosi (ebrei chassid, musulmani salafiti e testimoni di Geova) uniti da un interesse comune che di spirituale ha ben poco: un traffico di droga. L’autore, Karim Miské, madre francese e padre mauritano, è regista di documentari e questo è il suo primo romanzo.

Dal suo libro sembra quasi che il fattore che rende la convivenza tra culture diverse difficile, sia principalmente la religione
«La religione di cui parlo io non è la fede individuale, ma quel sistema di potere che utilizza il credo dei singoli per ottenere potere e denaro. Per mettere in evidenza questo meccanismo sono andato a guardare laddove ciò avviene in maniera più estrema e radicale, ovvero tra quei gruppi che impongono una visione identitaria chiusa. Ci sono stati momenti, nella storia del mondo, in cui in Paesi sia musulmani che cristiani, le diverse religioni hanno convissuto in maniera pacifica. Ma in un momento storico come quello che stiamo vivendo, in cui si cerca lo scontro, la religione è uno strumento perfetto per fomentarlo. Oggi ognuno guarda la propria ragione, senza vedere che ne esistono molteplici. Siamo in un momento di affermazione identitaria che non passa solo attraverso la religione, ma anche attraverso la convinzione che alcuni valori siano superiori ad altri».

Ma in alcune culture, più che in altre, l’identità individuale tende a coincidere con quella religiosa. Perché?
«Dipende da ragioni storiche. Nell’Europa occidentale c’è stato un movimento di modernizzazione che ha messo da parte la religione. In Francia, per dire, c’è stata la Rivoluzione. Diciamo che a un certo punto la fiducia nella scienza ha preso il posto della religione. Questo non è successo in altri Paesi: e in quelli in cui stava per prendere piede una forma di modernità ispirata all’illuminismo, come l’Impero ottomano o l’Egitto di Mohammed Ali, il processo è stato interrotto dall’imperialismo. Perché a quel punto, specie nel mondo arabo, c’è stato un rigetto della modernità occidentale, letta come una forma di ateismo. Oggi, poi, le frange più fondamentaliste dei musulmani che si trovano in Europa si sentono spesso emarginate, non accettate, circondate da un mondo ateo: allora preferiscono aggrapparsi alle proprie credenze».

Lei scrive che il quartiere dove si svolge la storia “crea” personaggi fondamentalisti.

«Sì, perché quello è un quartiere dove storicamente c’è stata un’alta percentuale di immigrazione ebrea dal Maghreb, specialmente dal Marocco e dalla Tunisia. Si è creata, quindi, una vita comunitaria nella quale la religione ha preso sempre più piede. Poi sono arrivati i musulmani ed è avvenuto lo stesso processo. Quindi ciò che accade oggi è che vi sono aree dove si concentrano le fasce più povere e più religiose della popolazione: che siano ebrei o musulmani. La cosa strana è che ogni comunità è chiusa nella difesa della propria identità, ma vive accanto all’altra. E tra di loro c’è un misto di rispetto e animosità: da una parte, infatti, un ebreo religioso ha più rispetto per un musulmano che per un ateo. Dall’altra si considerano nemici per via della questione palestinese…».

Nel suo libro le tre amiche della vittima hanno fratelli che si avvicinano al fondamentalismo, mentre loro ne sono immuni. Cosa fa la differenza?
«È una questione di percorsi individuali. Devo però ammettere che la società francese è più accogliente verso le ragazze, arabe o nere che siano. I maschi sono spesso visti come potenziali criminali o fondamentalisti. E allora succede che, messi a confronto con quest’immagine che la società ha di loro, sono tentati dall’aderirvi».

Nel booktrailer del libro, compare una frase piuttosto forte: “Dio è lo spacciatore supremo”. Ce la spiega?

«Da una parte si rifà a quella di Marx: “La religione è l’oppio dei popoli”. Ma non solo. Nel 2005 ho girato un documentario sui fondamentalismi religiosi: ho filmato tra gli ebrei lubavitch, gli evangelisti, i musulmani tabligh, e ho notato una cosa interessante: presso tutti i movimenti c’erano molti ex tossicomani. Per loro, questi movimenti hanno costituito la salvezza, perché presumo sia meglio passare il proprio tempo in chiesa piuttosto che a farsi di eroina. Allora mi sono detto: è come se queste persone trovassero un’altra sostanza con cui drogarsi. Dio sostituisce l’eroina o il crack. Il vuoto esistenziale può essere riempito con dosi massicce di religione. Da lì è nata la frase del booktrailer: in fondo lo spacciatore e il capo religioso (che sia prete, imam o rabbino), fanno la stessa cosa: ti danno un assaggio del prodotto in modo che, una volta che ti sei assuefatto, sei costretto a tornare per chiederne ancora».

Nelle ultime settimane diversi fatti di cronaca hanno riaperto la discussione sul tema migrazione in Europa. Com’è la situazione attualmente in Francia?
«Con Sarkozy si è aperta un’epoca di “liberazione” della parola: oggi è lecito fare, in pubblico, affermazioni anche razziste. Ma il dibattito in Francia non è tanto sul razzismo di per sé, quanto contro l’islam. Il problema è che si parte da una visione dell’islam come di una religione che è, di per sé, violenta e sessista. Quando in realtà, tutte le religioni hanno gli stessi punti di partenza. Solo che si pensa che l’Islam sia congelato nel tempo, senza alcuna possibilità di evolversi. In più, spesso si confonde l’Islam con il fondamentalismo, che è una minaccia per tutti: anzi, lo è di più per Paesi musulmani, perché da un punto di vista organizzativo fare un attentato lì è più facile che farlo in Europa e, d’altra parte, la maggior parte delle vittime dell’islamismo è musulmana. Ci si ostina a pensare all’Islam come a una religione compatta e violenta che minaccia l’Europa. La mia visione, in realtà, è che siamo in un momento in cui all’interno di ogni Paese europeo esistono pericoli interni, come i nuovi movimenti populisti ispirati all’estrema destra, per esempio. Basta pensare alla violenza che si è scatenata in Francia contro la legge sui matrimoni gay. Siamo in un’epoca di grande violenza perché viviamo un momento di transizione, ma non sappiamo verso cosa: questo genera angoscia, e quindi ciascuno ripiega sulla propria identità, pensando agli altri come nemici. Non penso affatto che l’Islam sia peggiore di altre religioni: ci sono molti teologi, in Francia, e sono quelli che vengono ascoltati dalla maggior parte dei musulmani, che interpretano l’Islam in maniera assolutamente compatibile con la vita democratica di una paese europeo. Il problema è che ci si focalizza sulle minoranze violente. Ciò detto, non bisogna sottovalutare la paura degli europei. Ma qui entra in gioco l’irresponsabilità dei nostri politici e la loro incapacità di fare un discorso pedagogico, di spiegare alle persone che non bisogna avere paura, che la società si trasforma, che la composizione della popolazione è cambiata e bisogna imparare a vivere gli uni con gli altri. Al contrario, si preferisce manipolare la paura».

Quindi lei come vede il futuro del suo Paese dal punto di vista dell’integrazione?

«Il problema è che la Francia fa fatica a pensarsi come una paese di immigrazione, anche se lo è da molto tempo, perché prima ancora degli africani ci sono stati gli italiani, i polacchi, i belgi. Ma siccome questi sono stati completamente assorbiti nella società, allora si è elaborata questa teoria: che quella migrazione andava bene perché era europea e cattolica. La verità è che c’è una sorta di schizofrenia tra come la società francese è nella realtà e la rappresentazione che ha di se stessa. La gente vive una quotidianità fatta di mescolanza: negli ospedali moltissimi medici sono immigrati, nell’amministrazione pubblica molti impiegati sono immigrati. Ci sono tantissime coppie miste. Ma è come se una parte della società non vedesse questa realtà. E la crisi economica complica le cose, ovviamente, perché rende diffidenti e spinge a cercare capri espiatori. La verità è che tutta l’Europa deve intraprendere un cammino per imparare a rappresentarsi non più come necessariamente bianca e cristiana. È un cambiamento nella visione di sé che è enorme e, per questo, difficile. E siamo ancora agli inizi, alla fase della scoperta gli uni degli altri, dell’apprendimento. Del comprendere come si può vivere insieme. Ci vorrà del tempo».

Gabriella Grasso

Karim Miské parlerà del suo libro al Festival Le corde dell’anima, a Cremona, venerdì 31 maggio alle 18:30.