Sudafrica

C'è sempre qualcuno più nero degli altri

- 26 Maggio 2013

Il razzismo e la violenza contro i migranti provenienti da altri paesi africani. In un libro, le contraddizioni della “nazione Arcobaleno”.

Stiamo parlando delle storie raccontate da Giuseppe De Mola e pubblicate nel volume Distanze (Besa). De Mola, operatore di Medici senza Fontiere, è stato in Sudafrica dal 2009 fino al settembre del 2011, passando dalla piccola e relativamente semplice Musina, al confine con lo Zimbabwe, alla complessità di Città Del Capo, portandosi dentro tutta la carica vitale di un Paese che riunisce nella sua storia la vergogna dell’apartheid e lo slancio della lotta antirazzista. Tornato in Italia, avrebbe potuto scrivere un saggio, un’inchiesta, un reportage, e invece ha scelto la narrativa, il racconto. Per l’esattezza, 25 racconti che insieme compongono un mosaico dell’esperienza realizzata. Si tratta di una scrittura forte e potente, quasi onirica in certi momenti, cruda e spietata in altri. Storie vere, vissute dall’autore, storie del passato e rinarrate lasciandosi prendere da proprie chiavi interpretative. Giuseppe De Mola scrive “bene” e riesce a colpire nei punti giusti, suscitando domande piuttosto che fornendo risposte.

Un tema molto presente è quello delle migrazioni dai paesi confinanti e dalle aree più svantaggiate del Paese. C’è un’ostilità diffusa verso i migranti, in particolare verso gli irregolari, che è ripetutamente sfociata in crimini orrendi, a riprova di come, anche nella “Repubblica Arcobaleno”, ci sia sempre qualcuno “più nero” degli altri.
«Il Sudafrica, dopo la fine dell’Apartheid, nel ’94, è divenuto un polo di attrazione per chi arriva dal Mozambico, dal Malawi, dallo Zimbabwe. Non si conoscono i numeri precisi, ma lo scorso anno si parlava di 5 milioni di immigrati, circa il 10% della popolazione totale. Il dato è stato strumentalizzato dalla classe politica per giustificare la situazione economica del “post apartheid” e gli immigrati sono diventati il capro espiatorio. La condizione dei neri sudafricani non è cambiata molto. In troppi vivono ancora nelle baraccopoli. C’è una disoccupazione che arriva al 50%, alcoolismo e Hiv sono imperanti. L’immigrazione entra in questi contesti. Chi arriva può solo permettersi di andare a cercare spazio nelle stesse baraccopoli, dove trova un tetto sotto cui dormire a basso costo. Ci si arrangia con lavori saltuari, ma la vita è sempre precaria. Una situazione fragile che crea continue tensioni. L’ennesima “guerra fra poveri” insomma, che viene affrontata dalla classe politica dei giovani rampanti dell’African national Congress, con un’unica, “semplice” strategia: cacciamoli. Una delle storie che ho raccolto la sintetizza bene. Una consigliera comunale nera che diviene l’organizzatrice di un raid contro gli immigrati e che viene arrestata perché, in seguito a questa azione, un ragazzo viene ucciso. Non so se il suo processo sia andato avanti e se sia stata condannata da un tribunale, ma lei era convinta di agire per il bene dei suoi concittadini. Nello stesso racconto la consigliera si incontra con una studentessa universitaria, anche lei nera. La cito per raccontare dei neri che riescono a studiare e che diventano una elite inascoltata. Anche quando racconto degli anni Cinquanta parlo dei neri che volevano vivere come i bianchi. Oggi come allora sono inascoltati e vengono chiamati col termine dispregiativo di coconuts (noci di cocco), ovvero neri fuori e bianchi dentro. Sono persone che studiano nelle scuole migliori e poi vanno a fare i master a Londra».

È incredibile l’accanimento incontrastato verso le persone che provano ad entrare dallo Zimbabwe.
«Nel periodo che ho passato a Musina, proprio dall’altra parte del Limpopo (il fiume che separa i due Paesi) mi sono imbattuto in troppe storie che hanno in comune questa violenza senza ragione. E ho scelto di non raccontare le cose più raccapriccianti perché quel livello di perversione è al di fuori della portata dell’immaginazione. Le bande criminali che operano al confine – una volta, durante l’apartheid, c’era il filo elettrificato a bloccare le persone – intercettano chi arriva, lo rapinano di ogni cosa e si accaniscono con una violenza inaudita soprattutto contro le donne. Nessuno fa niente per fermare questa violenza, neanche si fanno indagini. Ora a quanto ne so la situazione è ancora più drammatica: fino ai mondiali di calcio c’era una “moratoria” che impediva di procedere all’espulsione di chi riusciva ad entrare. Ora c’è stata una restrizione nel concedere il diritto di asilo – nonostante quello che accade in Zimbabwe – e le persone vengono espulse con facilità, senza nessuno degli elementi di garanzia che cerchiamo di salvaguardare in Europa, dall’identificazione certa al divieto di rimpatrio collettivo. Quando ero a Musina c’era un capannone che veniva utilizzato per fermare chi era intercettato. Ora è diventato un vero e proprio centro di identificazione come i nostri Cie, con sezioni per uomini, donne e bambini che possono restare dentro per tempo indefinito. In Sudafrica arrivano almeno 50 mila richieste di asilo l’anno e si effettuano migliaia e migliaia di espulsioni forzate».

E pensare che un tempo erano i perseguitati politici sudafricani ad andare dall’altra parte del confine.
«Sì, c’è chi parla con profonda vergogna di questa inversione di ruoli. Addirittura c’è un elemento assurdo: durante le manifestazioni contro l’apartheid, in Sudafrica, fu attuato un modo particolare di stare nei cortei chiamato toy toy. Consiste nel muoversi seguendo un ritmo particolare accompagnato da canzoni e da slogan. Oggi, questo stesso modo di stare in piazza, che ricorda la lotta contro il dominio razzista, viene utilizzato per fare i cortei contro gli immigrati che spesso si concludono con atti di violenza terribili. Contemporaneamente, il regime dello Zimbabwe proibisce il toy toy. Una nemesi terribile».

Cosa accade quando gli immigrati riescono a raggiungere Città Del Capo?
«Ingrossano la popolazione delle township, occupano le case o si rifugiano nelle chiese, dove si incontrano e si scontrano con gli homeless. In alcuni casi prendono in affitto baracche dai sudafricani. Ma è una situazione che non può reggere e ogni tanto interviene la polizia con sgomberi e retate».

Altro tema che ricorre frequentemente è quello della diffusione dell’Hiv
«Si tratta di un peccato originale nel Paese. Difficile contare il numero delle persone morte o contagiate. Negli ultimi anni, per dire delle cose positive che si sono realizzate, nel Paese c’è stato un forte investimento per contrastare la malattia, per fare ricerca, avere i farmaci retrovirali ed educare la popolazione in merito alle modalità di trasmissione del virus. Nelle grandi città si sono ottenuti ottimi risultati, tanto da far diventare il Sudafrica all’avanguardia nel mondo. Lì si è realizzata una macchina particolare che permette di diagnosticare in pochi minuti il virus. C’è l’accesso gratuito ai farmaci e l’effetto è evidente. Ma non è quello che accade nel resto del Paese, nei villaggi più remoti e al confine. A Musina la situazione resta grave e ovviamente la responsabilità del propagarsi del virus viene addebitata alle donne immigrate che avrebbero rapporti sessuali (ma in molti casi sarebbe più opportuno parlare di stupri), non protetti.

E poi c’è il resto del Paese, dai “bianchi” ai “coloured”
«Il mondo coloured (meticci, pronipoti delle migrazioni forzate dalla Malesia, dal Sud-Est asiatico ecc…) è composito e pieno di elementi contraddittori. Né bianchi né neri, un tempo godevano di una condizione di privilegio rispetto ai neri che oggi è saltata. Prevale il fatto che sono troppo “neri” per i “bianchi” e troppo “bianchi” per i “neri”. Per  anni  sono rimasti in disparte e non hanno preso posizione nella lotta anti apartheid. Quando esplose il caso dell’imam Haron, di cui racconto, che sosteneva le ragioni dei movimenti anti apartheid tanto da essere chiamato “L’imam nero”, e che poi venne di fatto ucciso dai dominatori, l’accaduto provocò un forte movimento di opinione che portò molti coloured a schierarsi contro il potere bianco. Oggi però la situazione per loro è diversa. La maggior parte dei bianchi vive invece in una condizione di “precarietà dorata”. Non hanno perso potere e ricchezze, non c’è stata una vera e propria riforma agraria e le risorse importanti, dalle materie prime alle infrastrutture, al sistema bancario, sono ancora in gran parte nelle loro mani. Ma vivono perennemente con la valigia pronta. Sono convinti che quando sparirà la vecchia guardia dell’Anc ed andrà al potere la nuova generazione nera, molto più spregiudicata, potrebbero iniziare i guai. Alcuni politici sudafricani hanno portato sostegno a Mugabe (l’eterno presidente dello Zimbabwe) e condividono le sue politiche di nazionalizzazione delle risorse e di espropriazione delle proprietà dei “bianchi”».

Racconti un paese in condizioni durissime ma da cui emerge una forte vitalità. Nonostante la immensa miseria, si cerca di reagire
«Sì, perché è anche un paese vitale, giovane, attivo. Tante speranze riposte nella liberazione sono andate deluse, ma c’è voglia di costruire e di rialzarsi. Molte delle figure positive del mio libro sono femminili. Me ne sono accorto rileggendolo. Ma la resistenza delle donne è un dato oggettivo. A Musina le vittime dei peggiori abusi erano donne, ma manifestavano immediatamente l’istinto di ricominciare e di cercare di andare avanti. Molte si ritrovavano incinta per gli stupri collettivi subiti e reagivano anche per proteggere i propri figli. Ma non ho voluto santificare le donne. Il racconto della consigliera comunale non solo è reale, ma mi è rimasto impresso anche in quanto segnale “in negativo” di affermazione.

E fra le donne importanti, Miriam Makeba, “Mama Africa” come la chiamavano
«Di lei parlo a proposito di una storia surreale ma assolutamente vera. Alcuni registi americani vennero in Sudafrica, negli anni Cinquanta, dicendo di voler girare un film sulla musica nera per far sapere al mondo come stavano bene all’epoca i neri con le leggi dell’apartheid. Beffarono la censura, girarono infatti due film: uno quello ufficiale, finto, non venne mai montato e fu quello che superò il controllo delle autorità. Un altro, venne realizzato clandestinamente per raccontare violenza e ribellione che crescevano nei ghetti. Il film, quello vero, venne presentato in Europa e anche Miriam Makeba partecipò alla sua presentazione. Le vietarono per punizione di tornare in Sudafrica per 30 anni. E poi racconto dell’ultima notte della sua vita. Venne, già anziana e malata, a Castel Volturno, a cantare per i sei ragazzi ghanesi uccisi dalla Camorra. Venne a vedere il nuovo schiavismo in Italia e si spense poche ore dopo la fine del concerto».

Stefano Galieni