Da Kabobo a Ba

Cosa c'è dietro la violenza

- 26 Maggio 2013

Un giovane ivoriano accoltellato a Catania da un uomo con problemi psichici. Una notizia “minore” che oggi si presta a una lettura “maggiore”.

Ba ha 29 anni, è ivoriano e risiede da tempo a Catania. Il 21 maggio, una normale mattina, sta camminando per strada diretto in tabaccheria, quando si sente chiamare da una voce strana, in dialetto. «Cumpà (compare)! Sei nigeriano?» Ba risponde distrattamente di provenire dalla Costa D’Avorio e non dà peso alla persona che ora lo affianca. Ma l’altro urla che non è vero, che lui è nigeriano e che in Nigeria i musulmani stanno ammazzando i cristiani. Poi estrae un coltellino dalla tasca e colpisce Ba alla testa. Ba si difende, para i colpi e il coltellino si rompe. L’uomo ne estrae un altro e colpisce ancora. Potrebbe finire in tragedia ma Ba è più giovane e riesce a stendere a terra l’aggressore che viene poi portato via dai carabinieri. L’uomo, un cittadino italiano, come confermano i parenti è da tempo sofferente di problemi psichici. Le ferite di Ba non sono gravi. Ricoverato per accertamenti in ospedale, viene rapidamente dimesso e sporge denuncia per l’accaduto. Dal momento che non ci sono stati morti, nessun giornale locale ritiene di dover riferire l’accaduto. Noi invece pensiamo che valga la pena parlarne.
Questa storia (che fortunatamente ha avuto un altro esito) si abbina perfettamente e specularmente alla vicenda di Kabobo, il richiedente asilo ghanese che, a Milano, in un accesso di follia, ha ucciso tre persone a colpi di piccone, ferendone altre due. Si abbina ma non per farne un facile e superficiale paragone in chiave “antirazzista”, non per contrapporre Ba a Kabobo. Suggerisce piuttosto un pensiero sul malessere che attraversa il Paese, sulla solitudine e la marginalità che inchiodano troppe persone a esistenze stentate e a capitolazioni rabbiose e folli. Non si tratta qui di giustificare la violenza, ma di avere la forza, la lungimiranza di guardare cosa c’è dietro di essa. Sono saltati, in pochi anni, quei corpi intermedi, quei vincoli di solidarietà e di rete che in qualche maniera facevano sentire protetti. Esplodono le infinite solitudini delle nostre città e delle nostre storie e questi sono i risultati. La violenza, spinta fino alle estreme conseguenze. Non una circoscritta emergenza etichettabile, ma la normale aggressività senza limiti.
Si esagera? Forse no. Sono troppi i casi, spesso non denunciati, di violenze senza ragione. Dovremmo imparare a capire come ogni singola storia, spesso tragedia, abbia le proprie specificità da affrontare, i propri elementi su cui intervenire: immaginare la società come un corpo che deve essere curato in ogni parte, in ogni cellula, se vuole essere sano. Le cure costano, ma sono necessarie. Dimenticare i poveri, gli inermi è una soluzione che non risolve. Per rompere l’atomizzazione delle vite, realizzare una mutazione profonda, per rimuovere quella cappa pesante per cui il fallimento economico o professionale si traduce nel crollo individuale totale, ci vorranno decenni. Intanto sarebbe un risultato non da poco quello di identificare le vulnerabilità e affrontarle con strumenti adatti. Sappiamo ad esempio che la cosiddetta “Emergenza Nord Africa” ha prodotto in 2 anni numerosi casi di disagio psichico: persone che arrivavano in Italia dopo aver attraversato esperienze terribili nella Libia in fiamme sono state sostanzialmente abbandonate a se stesse, lasciate a barcamenarsi con i loro traumi. Kabobo era uno di loro.
Anni fa e con preveggente anticipo, un sociologo bolognese, Luigi Bernardi, pubblicò un volume Il male stanco in cui, raccontando di piccoli delitti derivanti da microconflitti, denunciava il rischio di ritrovarsi in un Paese in cui la violenza, spinta all’estremo, rappresentasse in fondo una fuga dai problemi e dalle responsabilità. La violenza come soluzione (autodistruttiva ovviamente oltre che criminale) ma unico strumento di cui il singolo sembra poter disporre. Noi dovremmo cercare di fermarci prima. Prima che un altro Ba sia colpito, prima che un altro Kabobo prenda il piccone.

Stefano Galieni