In primo piano

Diritti minori

- 26 Maggio 2013

Sono quelli dei minori stranieri: tutelati sulla carta, ignorati nel concreto.

«Non è consentita l’espulsione nei confronti degli stranieri minori di anni diciotto, salvo il diritto a seguire il genitore o l’affidatario espulsi». Recita così l’articolo 19 del Testo Unico sull’Immigrazione, che stabilisce il principio dell’inespellibilità del minore. Una formula lapidaria, che lascia poco spazio ad interpretazioni: e che però, a scanso di equivoci, è stata resa ancor più netta nel Regolamento di Attuazione dello stesso Testo Unico, che stabilisce il diritto al permesso di soggiorno per tutti i migranti inespellibili.
A volerla leggere bene, questa sequenza normativa ha un significato preciso: il minore straniero non è mai “clandestino”. Ha diritto ad una tutela specifica, che si concretizza – tra l’altro – nel rilascio di un documento da parte della questura.

Il problema è che la legge non è sempre applicata in modo corretto: questure e amministrazioni pubbliche decidono caso per caso, e spesso i provvedimenti non sono conformi alla normativa. Così, per far valere i loro diritti i cittadini stranieri devono fare ricorso al giudice: e ogni ricorso, si sa, richiede tempo, pazienza, avvocati, soldi… Ma andiamo con ordine, e vediamo come stanno le cose.

“Accompagnati” e “non accompagnati”
La legge distingue tra minori stranieri “accompagnati” e “non accompagnati”. I primi sono coloro che vivono in Italia assieme ad almeno un genitore regolare; i secondi si trovano sul territorio da soli (o, più spesso, con un padre e una madre irregolari…).
Quando un minore è “accompagnato”, ha diritto ad un permesso di soggiorno che dipende da quello dei genitori. Più esattamente, fino all’età di quattordici anni il minore è inserito nel loro permesso; poi, in età adolescenziale, ottiene un documento autonomo, “per motivi familiari”, fino a che non diventa maggiorenne.
I “non accompagnati” hanno invece diritto ad un soggiorno “per minore età”. E qui bisogna fare un po’ di attenzione, perché le parole ingannano, e rischiano di creare equivoci: il permesso “per minore età”, a dispetto del nome, non è rilasciato a tutti i minori, ma solo alla ristretta categoria dei “non accompagnati”. Teniamo ben presente questa terminologia un po’ ingarbugliata, perché ci tornerà utile tra poco.

Diventare grandi
Per la legge italiana, come noto, la maggiore età comincia a diciotto anni: raggiunto quel traguardo, non siamo più bambini, e non godiamo più delle speciali tutele riservate ai “fanciulli” (il termine, di sapore un po’ ottocentesco, che si usa nei testi di legge e nelle convenzioni internazionali). Per quanto riguarda i ragazzi stranieri, diventare maggiorenni è un passaggio strategico: le norme sull’immigrazione abbandonano le cautele e le attenzioni dedicate ai minori, e chiedono requisiti molto più stringenti per la permanenza in Italia.

I minori “accompagnati” hanno la vita più facile. Il loro permesso “per motivi famigliari” può essere trasformato in un soggiorno per motivi di lavoro, o per studio, o anche per attesa occupazione. A patto, naturalmente, di avere i relativi requisiti (un contratto di assunzione, l’iscrizione all’Università o al collocamento).
Nel 2008, poi, una circolare del Ministro Amato autorizzava il mantenimento del permesso “per motivi familiari”, qualora il ragazzo fosse rimasto con i genitori. «Può accadere», scriveva il Viminale, con (inconsueta) ragionevolezza, «che il giovane straniero, raggiunta la maggiore età, abbia ancora incertezze sul proprio futuro di studio o lavorativo e, potendo rimanere a carico dei genitori, non sia in grado di soddisfare i requisiti per il rilascio di uno dei permessi citati». In questi casi bisognava garantire il diritto a rimanere in famiglia, e a prolungare la permanenza in Italia.

Per i “non accompagnati”, le cose sono più complesse: trovare un lavoro, diventare studente universitario o registrarsi come disoccupato sono condizioni necessarie, ma non sufficienti per restare in Italia.
Il Testo Unico prevede che possano rinnovare il permesso solo coloro che, prima di diventare maggiorenni, siano stati «ammessi per un periodo non inferiore a due anni in un progetto di integrazione sociale e civile gestito da un ente pubblico o privato». L’espressione non è molto chiara, ma le Questure hanno pochi dubbi su come interpretarla: così, il permesso viene rinnovato solo se, nei due anni precedenti al compimento della maggiore età, il ragazzo è stato ospite di un centro di accoglienza, oppure è stato seguito dagli assistenti sociali.

In pratica, si è venuto a creare un “doppio binario” che ha un po’ il sapore della discriminazione: perché i minori “non accompagnati” possono restare in Italia solo se sono arrivati prima dei sedici anni, e se si sono sottoposti alle “cure” di servizi sociali e operatori. L’adolescente che ha vissuto assieme ad adulti irregolari, ad esempio, deve tornare al suo paese. Mentre il suo coetaneo “accompagnato” può ottenere un nuovo permesso di soggiorno, o rinnovare quello che aveva prima (per “motivi familiari”).

La sentenza
In realtà, molti “non accompagnati” avrebbero comunque diritto a rimanere in Italia anche dopo i fatidici diciotto anni. Bisogna infatti sapere che, in alcuni paesi di origine dei migranti, la maggiore età non si compie a diciotto, ma a ventun anni: e la Convenzione dell’Aja del 1961, ratificata anche dall’Italia, impone che lo status di “minorenne” (o di maggiorenne) sia determinato in base alla legge del paese di appartenenza, se è più favorevole all’interessato.

Su questo punto interviene una recente sentenza del Tar Lazio, frutto del lavoro paziente del «Laboratorio di Teoria e Pratica dei Diritti» dell’Università degli studi di Roma Tre. Da tempo, infatti, studenti e docenti di giurisprudenza di quell’ateneo hanno promosso un vero e proprio sportello informativo rivolto ai migranti: e allo studio in biblioteca, agli esami e ai seminari aggiungono un’attività pratica di tutela contro le discriminazioni.

In questo caso, il Laboratorio ha seguito un giovane egiziano, a cui la Questura aveva negato il rinnovo del permesso “per minore età”, con la semplice motivazione che il ragazzo aveva compiuto i diciotto anni. I legali dello sportello hanno presentato ricorso, facendo valere appunto la Convenzione dell’Aja, e ricordando che in Egitto si diventa “adulti” a ventun anni.
«Portata la questione di fronte al Tar», annunciano soddisfatti gli operatori dello sportello, «il giudice ha riconosciuto l’illegittimità del diniego del permesso di soggiorno».

Ma gli studenti del Laboratorio non si sono limitati a sollecitare l’intervento del giudice: hanno anche fatto una piccola inchiesta tra le Questure per verificare se la normativa fosse conosciuta e applicata. I risultati sono a dir poco sconfortanti: «L’ufficio immigrazione di una delle maggiori questure italiane», dicono dal Laboratorio, «ha giustificato la mancata applicazione della Convenzione perché non recepita dal Testo Unico sull’immigrazione, ignorando, quindi, la gerarchia delle fonti del diritto prevista dalla nostra Costituzione. Inoltre, l’amministrazione ha ammesso candidamente di conoscere la normativa ma di applicarla solo di fronte a un ordine espresso dell’autorità giudiziaria».

La storia, purtroppo, è sempre la solita. In Italia i diritti non ci sono, e quando ci sono non vengono applicati…

Sergio Bontempelli