Trapani

Pestaggi quotidiani

- 26 Maggio 2013

È accaduto ancora; è accaduto al Cie di Milo. Ma, naturalmente, accade più spesso di quanto si venga a sapere; e accade in tutti i Cie d’Italia. Sì, quella maschera gonfia e viola, che è ormai il volto di Fathi, con quell’enorme squarcio nero di sangue rappreso, appena sopra l’occhio, è davvero brutta a vedersi; ma è solo un elemento, anche piuttosto banale, della quotidianità in un Cie.
Una quotidianità declinata con i ritmi di sempre: i nuovi arrivi, i rimpatri, i tentativi di fuga, le rivolte, l’intervento della polizia. Un tragico rituale che si ripete sempre uguale.
Perché, questo è un Cie.
La violenza ne è tratto caratterizzante: quella commessa nei confronti di coloro che sono trattenuti; la violenza commessa da questi verso gli altri, e verso loro stessi.
Violenza che serve a sfogare la rabbia, a vendicarsi, a soffocare la paura. O magari solo a fare passare il tempo, che dentro non passa mai.
Così, non serve “imbellettare” qualche aspetto dell’esistenza di Fathi, legato alla sua condizione di clandestino trattenuto in un Centro di identificazione ed espulsione, per renderlo più idoneo al ruolo di vittima.
Fathi, prima di essere portato al Cie, stava in carcere, come la gran parte dei trattenuti a Milo.
È uno di quelli considerati “difficili”: sempre a piantar grane, a protestare, per il cibo cattivo, o per qualunque altro motivo; così sveglio da riuscire a coinvolgere gli altri.
Quella mattina di venerdì 17 maggio, viene portato fuori per una visita dal dentista; con un’auto della polizia e un’autoambulanza al seguito, così come prevede il “protocollo”.
Da questo momento in poi si raccontano due storie:
Fathi parla di una richiesta di usare il bagno, più volte negata; di una finestra fatta chiudere dal medico, a mo’ di scherno; di un suo semplice gesto di stizza; della visita interrotta; del “pestaggio” a suon di manganelli, subìto dai poliziotti durante tutto il tragitto, e continuato fin nel parcheggio del centro.
Altri parlano di ripetuti tentativi di fuga durante la visita, anche attraverso la finestra; di un’esplosione di rabbia incontenibile; dell’ambulatorio devastato; di un’aggressione al conducente dell’autoambulanza; di “un’unica manganellata” come reazione ad una testata, sferrata all’arrivo, lì nel parcheggio.
Poi, il finale della storia è univoco: la protesta degli altri trattenuti; lo sciopero della fame; avvocati che si “defilano”; e finalmente la presentazione della denuncia, con la richiesta alla Procura di Trapani di acquisire le immagini delle telecamere di sorveglianza, installate nel parcheggio del centro.
A seguire, probabilmente, un’altra inchiesta sul “metodo Milo”, dopo quella del giugno del 2012; conseguenza del video pubblicato da Repubblica.it, dove si vedono altri volti gonfi, e il terreno inondato dagli idranti, adoperati per sedare le rivolte.
Ma la storia di Fathi è uguale alle tantissime altre storie di quelli, italiani e stranieri, che sono finiti nelle “mani dello stato”. Solo che lui è rimasto vivo, stavolta.
E davanti a quella faccia gonfia, ridotta a una maschera orrenda e allo stesso tempo quasi buffa, di questo ragazzo così “difficile”, trattenuto in un centro di identificazione ed espulsione, lo Stato, quello “di diritto”, con i suoi princìpi, le sue leggi, i suoi rappresentanti, ha perso ancora una volta un pezzo della propria dignità.

Valeria Bertolino