Mal di Svezia

Scambiamoci la pelle

- 26 Maggio 2013

Esclusione e guerriglia a Stoccolma. Possiamo per favore, però, non fermarci alle apparenze? Le riflessioni di Igiaba Scego.

Rinkeby è un distretto di Stoccolma con un’alta percentuale di migranti provenienti da zone di conflitto o ex conflitto: Iraq, Libano, Somalia, Bosnia. Naturalmente altissima è la percentuale di figli della migrazione, nati e/o cresciuti in Svezia. Il quartiere ha un aspetto leggermente diverso dal centro. La differenza si respira già dalla stazione della metro. Qui, come del resto a Parigi alla Goutte D’or, la stazione ha un aspetto dimesso, un po’ povero. Non è una brutta stazione, ma c’è qualcosa che stona, che non quadra, che alla fine non piace. Basta guardare i muri. Le decorazioni sono assenti e le pubblicità (quando ci sono) etnicizzate. Se al centro città i manifesti pubblicizzavano vestiti fashion e siti per single, alla stazione di Rinkeby il massimo che si può trovare è una nuova marca di cous cous. Banalmente anche le pubblicità indicano che l’esclusione sociale è servita come pasto quotidiano.
A Rinkeby la popolazione migrante raggiunge il 90% e questo è un dato allarmante. Significa che i cittadini svedesi da generazioni hanno deciso di abbandonare in massa l’area. Quindi Rinkeby, pur essendo Stoccolma, di fatto è una città separata da un cordone invisibile di pregiudizi.
Ma è proprio qui, in un luogo che molti svedesi consideravano con preoccupazione, che si è compiuto un piccolo miracolo. E il miracolo è avvenuto alla Rinkeby School.
Venti anni fa la Rinkeby school doveva chiudere. Molti insegnanti si erano trasferiti o stavano per andare in prepensionamento. Poi arrivò lì Börje Ehrstrand dalla Finlandia e cambiò tutto. Certo, la scuola doveva affrontare una diversità al suo interno non indifferente: settanta nazionalità, una babele di lingue, una varietà di tradizioni. Quasi tutti gli studenti infatti erano rifugiati o figli di rifugiati politici. Non semplici emigranti economici quindi, ma gente che fuggiva da sanguinosi conflitti o che vivevano, attraverso i genitori, le problematiche dell’inserimento. Per molti di loro lo scoglio più grande era la lingua ed è quella che divenne la chiave di accesso per il futuro. A Rinkeby si cominciò quindi ad insegnare lo svedese supportando i ragazzi in ogni step e ci si avvalse anche dell’uso dei mediatori linguistici e culturali. L’importante nella Rinkeby school era quello di dare fiducia ai ragazzi. Si doveva mettere in condizione lo studente, che già viveva in una realtà separata e di fatto ghettizzata, la sensazione che poteva farcela comunque. Credere in se stessi divenne così il motto segreto degli insegnanti e degli alunni. Oggi, dopo venti anni, la Rinkeby raccoglie i frutti di questo lavoro certosino. La scuola può vantare studenti che sono tra i migliori in Europa per le materie scientifiche e letterarie. Se vent’anni fa gli svedesi abbandonavano la scuola di Rinkeby, oggi stanno pian piano tornando. Perché il successo alla fine viene riconosciuto anche da quelli che lo osteggiavano all’inizio.

Rinkeby però è un’oasi rispetto al deserto che c’è in molti quartieri del distretto di Stoccolma. La guerriglia urbana che si è scatenata ferocemente sulla capitale è la prova tangibile che la situazione svedese è delicata, complessa, in continua evoluzione. L’uccisione da parte della polizia di un sessantacinquenne migrante armato di machete ha scatenato nella città un puro senso di panico. Distretti come Husby, Hagsatra, Ragsved e Skogas sono stati messi a ferro e fuoco. Macchine bruciate, vetrine infrante, insomma il solito repertorio della rabbia che abbiamo visto in tanti luoghi del mondo da Parigi a Londra. Gli scontri si sono allargati anche fuori Stoccolma. Orebro e Sodertalije hanno seguito la stessa scia di rabbia di Husby.
Molti giovani figli di migranti di Husby, Hagsatra, Ragsved, Skogas non trovano lavoro. Discriminati dal loro aspetto fisico o dall’indirizzo di casa. Essere collegati a certe zone a Stoccolma spesso, infatti, non conviene.
Però come dice Alessandro Bassini, traduttore italiano dallo svedese e da molti anni residente nel paese scandinavo: «Sicuramente Stoccolma è una città che presenta delle “barriere invisibili” fra il centro e alcune zone della periferia. Non direi però – aggiunge – che si tratta di aree degradate. Certamente l’architettura non è bella, ma alcuni quartieri di altre città (Parigi, Londra, ma anche Milano) sono molto più brutti e trascurati. Il problema è che in questi quartieri ci sono quasi esclusivamente immigrati. Si creano quindi dei “microcosmi” slegati dal resto del tessuto urbano. Negli anni Ottanta, quando arrivarono i rifugiati politici, si creò persino l’invandrarsvenska (letteralmente “lo svedese degli immigrati”), una sorta di lingua pidging simile all’inglese delle ex-colonie britanniche. In questi quartieri, infatti, si trovavano a vivere iraniani, jugoslavi, cileni. Per comunicare usavano il poco svedese che avevano imparato ai corsi di lingua statali, contaminandolo però con le parole delle loro lingue».

Ed è questa segregazione che denuncia anche Sabrina, una giovane somala che vive a Stoccolma da tre anni: «Qui ci danno un sussidio e sono davvero generosi. Ho cugini in Italia che quasi quasi vivono per strada. Io invece ho un tetto, da mangiare e studio la lingua»; però anche Sabrina, dopo due anni, ha capito che c’è un “ma” e lo spiega senza reticenze: «In due anni le uniche svedesi che ho visto sono le mie insegnanti. Mi hanno detto che gli svedesi sono biondi, ma chi li ha mai visti?». Sabrina poi denuncia che per le donne è più difficile vivere nelle città ghetto «perché alla fine i maschi delle nostre comunità ci controllano. Non ci fanno studiare. O si permettono di dirci cose che in Somalia non si sarebbero azzardati. Una volta un gruppo di ragazzi mi ha fermato per strada dicendomi che avevo messo male il velo e che lo dovevo stringere di più. E che se non lo facevo ero solo una scostumata, una shermutta e loro mi avrebbero dato una bella lezione».
Inoltre c’è da dire che la tipologia degli immigrati è molto cambiata in Svezia. Se prima il paese era meta di migranti economici che venivano per lavorare, da almeno dieci anni sono aumentati i flussi di persone in fuga dai conflitti che infiammano il globo. Persone quindi che si trovano in una realtà che non avevano mai immaginato di vivere. Non sempre sono giovani e in generale devono ricominciare da zero. Dalla lingua e dall’imparare anche la struttura del sistema Svezia. Come ben ci ricorda Alessandro Bassini «manca compenetrazione e dialogo. Anche in questo caso, però, io noto molte differenze fra gli immigrati che vengono a lavorare nelle università o in grandi aziende, e non sono solo europei, ma anche indiani, americani, africani; e i rifugiati politici, il cui isolamento finisce per riflettersi anche sui figli. Questo è, a mio avviso, il vero problema dell’accettazione da parte dell’opinione pubblica: alcuni immigrati sì, perché fanno un certo tipo di lavoro, altri immigrati no, perché sono rifugiati, portano il velo, non imparano la lingua etc… si tratta, ovviamente, di un’altra forma, non meno grave, di razzismo» però c’è anche un risvolto positivo, ci ricorda Bassini, «che ci sono anche casi molto significativi di coppie miste. Credo che i giovani svedesi siano molto più aperti dei loro padri».

Però i riots nascono anche da un senso generalizzato di insicurezza economica. «Il famoso “welfare svedese” è cambiato moltissimo – sottolinea Alessandro Bassini – Tante riforme hanno lasciato solamente l’ossatura di quello che una volta era il grande modello di questo paese. I governi conservatori degli ultimi anni (ma anche gli ultimi governi socialisti) hanno avviato una serie di privatizzazioni e liberalizzazioni che hanno cambiato il volto della Svezia. Certo, la scuola è ancora gratuita, c’è moltissima attenzione per le famiglie e per i bambini, grande impegno per la parità fra i sessi e rispetto dei lavoratori, ma l’antica visione socialdemocratica di Olof Palme è tramontata da tempo. Lo stato svedese si premunisce di dare agli immigrati una casa decorosa, paga loro un corso di lingua, “li tratta bene”. Ma poi resta il problema dell’integrazione con il resto della popolazione. E poi – non dimentichiamolo – un’azione politica che negli ultimi anni ha mostrato non pochi pregiudizi» ed è questo pregiudizio che si sta diffondendo nella società. Sono in molti a denunciarlo. Associazioni di volontariato come Megafone e recentemente molti artisti. «L’attuale Primo Ministro – ci ricorda Bassini – qualche mese fa, parlò di “svedesi etnici”, sostenendo che fra loro (cioè fra quelli che si chiamano larsson o Svensson e hanno gli occhi blu e i capelli biondi) la disoccupazione era molto bassa. Recentemente il ministro della Giustizia è stata criticata per il controverso progetto Reva (simile al racial profiling americano), per cui la polizia viene istruita a “riconoscere” i potenziali criminali in base a criteri fisiognomici». A questo riguardo, uno degli scrittori più amati e letti di Svezia, Jonas Hassen Khemiri, figlio di madre svedese e padre tunisino, autore del fortunato Una tigre molto speciale (Montecore) [Guanda], ha scritto al ministro Beatrice Ask, una lettera dal titolo “Egregio Ministro, scambiamoci la pelle” dove lo scrittore denunciava la ferocia razzista di una politica piena di pregiudizi.
E con la sua lettera Khemiri ha lanciato di fatto una provocazione al primo ministro “Le scrivo con una semplice richiesta, Beatrice Ask. Vorrei che ci scambiassimo pelle ed esperienze. Su, avanti: facciamolo”.
Ed è questo “scambio di pelle” che la Svezia, e in generale l’Europa tutta, dovrà fare presto se vorrà davvero diventare un continente inclusivo. Le notti infuocate di Husby lo esigono. Non si può più perdere tempo.

Igiaba Scego