Poesia e integrazione

Compagnia bella

Stefania Ragusa - 9 Giugno 2013

Le Poete portano a Milano il loro ultimo spettacolo. Intervista a Mia Lecomte, ideatrice della Compagnia

La Compagnia delle poete è certamente una delle realtà più valide e interessanti nel campo della cosiddetta letteratura delle migrazioni. Esiste dal 2009 e riunisce venti poetesse cosmopolite, che spaziano tra diversi idiomi.
In ordine alfabetico: Prisca Agustoni, Cristina Ali Farah, Livia Bazu, Laure Cambau, Adriana Langtry, Mia Lecomte, Sarah Zuhra Lukanic, Natalia Molebatsi, Vera Lucia de Oliveira, Helene Paraskeva, Brenda Porster, Begonya Pozo, Barbara Pumhösel, Sally Read, Melita Richter, Francisca Paz Rojas, Candelaria Romero, Barbara Serdakowski, Jacqueline Spaccini, Eva Taylor. 

Signora Lecomte, come è nata questa compagnia e con quale obiettivo?
«Eravamo in treno, io e Candelaria Romero, di ritorno da uno spettacolo fatto insieme a Bolzano. E ci dicevamo che ci sarebbe piaciuto fare  ancora qualcosa insieme, sulle donne viaggiatrici di fine ‘800. Ma poi ci siamo trovate a pensare che anche il presente che stavamo vivendo era pieno di grandi viaggiatrici: le donne migranti. E forse sarebbe stato più interessante dare voce a loro attraverso la poesia. Abbiamo coinvolto altre poetesse (una delle prime è stata Cristina Ali Farah). Occupandomi di letteratura della migrazione dagli anni ‘90, avevo molti contatti. E abbiamo fatto alcuni esperimenti per capire cosa ci interessasse davvero e cosa no».

Seguendo quali criteri avete allargato il gruppo?
«Al primo posto abbiamo messo la qualità poetica. La nostra idea è che la transculturalità deve emergere dal nostro lavoro ma non essere una bandiera. La qualità poetica viene prima, questa per noi è stata una discriminante importante. Non vogliamo sconfinare nel folklore, ma dimostrare che questa è la nuova letteratura italiana, che il destino della letteratura italiana è anche questo».

Perché poete e non poetesse?
Si è deciso così a maggioranza, per manifestare il rifiuto di un linguaggio sessista. Personalmente io preferisco e continuo a usare la parola poetessa».

Qual è stato il vostro primo spettacolo?
Acromazie. È lo spettacolo di esordio della Compagnia, ed è stato promosso dalla Compagnia di Teatro di Innovazione dell’Albero di Minerva, presieduta da Daniela De Lillo. È stato inizialmente realizzato come video (Roma, maggio 2009), poi portato in teatro. Quindi è stata la volta di Le altre e Madrigne, che è ancora in giro. Noi siamo tante, non siamo quasi mai in scena tutte insieme, non seguiamo una traccia definita, ma gli spettacoli cambiano a seconda di chi c’è in quel momento. Ecco allora che mentre Novunque sbarca a Milano, Madrigne può essere altrove».

Siamo abituati a pensare alla poesia come a un fatto molto intimo e individuale, voi invece lo portate in scena e collettivamente
«Noi vogliamo restituire alla poesia la sua dimensione corale partecipata. Però la nostra scrittura rimane sempre un fatto singolare, legata appunto al personale percorso esistenziale, culturale, letterario. Questo è certo. Ma diventa comune, condivisibile, nel momento in cui affianchiamo le nostre parole poetiche a quelle delle altre e ci accorgiamo che la voce della poesia è una sola e ci permette di suonare insieme. Così nascono anche contaminazioni, impollinamenti trasversali, debordiamo oltre i nostri confini, tanto che quando torniamo alla scrittura solitaria, ripeto necessaria, non siamo più le stesse. Operare trasformazioni profonde è proprio della poesia come di ogni vera e necessaria forma di comunicazione umana, non solo artistica e letteraria».

Perché secondo lei la letteratura della migrazione in Italia continua a non essere presa sul serio?
«C’è stato un boom negli anni ‘90 accompagnato da una, in molti casi, discutibile politica editoriale (che in realtà ha riguardato più la narrativa che la poesia). Sulla scena sono arrivati autori scelti per il loro potenziale di vendita e non per il reale valore. Ci sono stati autori inventati a tavolino. Ciò ha fatto sì che questo nuovo soggetto, la letteratura della migrazione, non si presentasse bene. E poi l’Italia è davvero un paese poco cosmopolita, dove l’immigrato continua a essere visto necessariamente come un poveretto da compatire. La realtà è diversa. Nella realtà troviamo immigrati che parlano una pluralità di lingue e che hanno studiato in scuole migliori di quelle italiane».

Ha senso secondo lei dire che l’Italia è indietro rispetto agli altri paesi?
«Questo tipo di confronto non è utile e non ha senso. Ha senso focalizzare i punti deboli o critici e lavorare per trasformarli, tenendo conto che ogni paese ha la propria storia e il proprio passo».

Stefania Ragusa