Eritrea

La tassa della diaspora

- 9 Giugno 2013

Ogni anno i cittadini eritrei all’estero devono versare al governo il 2% dei loro guadagni.

«Dev’essere chiara una cosa: questa non è né un’imposta legittima, né una libera donazione da parte degli emigranti verso il proprio Paese di origine. È un’odiosa forma di ricatto e di controllo da parte di un regime che non si accontenta di reprimere i propri cittadini in patria, ma li vuole sottomessi anche all’estero».
Le parole di Munir non lasciano spazio a fraintendimenti. Lui, come molti suoi compatrioti, non vuole più pagare il «2%», come gli eritrei espatriati chiamano l’imposta che ogni anno sono costretti a pagare sui redditi che producono all’estero.
Questa imposta è stata introdotta dal governo di Asmara nel 1995 con la legge n. 67 (Diaspora Income Tax Proclamation), ma affonda le radici negli anni precedenti. Nel 1993, raggiunta l’indipendenza dall’Etiopia, l’Eritrea chiede agli espatriati di donare una parte dei redditi per contribuire alla ricostruzione del Paese. La risposta è generosa. Gli emigrati pagano volentieri per sostenere il Paese. Nel 1999 scoppia una nuova guerra contro l’Etiopia. Di fronte all’emergenza, Asmara chiede alla diaspora una tantum di un milione di lire e un ulteriore versamento mensile di 50 mila lire. Il peso di questi contributi inizia a diventare elevato, ma gli emigrati non si tirano indietro. Intanto, però, il sistema politico si sta trasformando in una dittatura che reprime ogni opposizione. Negli emigrati s’insinua il dubbio che quei fondi servano in realtà al rafforzamento del regime. Anche perché Asmara non rende conto di come questi soldi vengano utilizzati.

Gruppi di eritrei all’estero iniziano a chiedere di ridurre i contributi. Il regime non cede. Quando viene sollevato il problema della legittimità del tributo, i diplomatici rispondono che si tratta di un’imposta legale e che anche i sistemi fiscali di altri stati prevedono imposizioni sui cittadini all’estero. Il riferimento è a Stati Uniti e Israele. Entrambi, infatti, impongono tributi sui redditi e, nel caso Usa, anche sui guadagni patrimoniali realizzati all’estero.

Il caso eritreo però si differenzia da quello degli altri Stati. Gli eritrei che non pagano si vedono negata la possibilità di rinnovare i documenti, di compiere atti giuridici in Eritrea (acquistare e vendere immobili, partecipare alla successione testamentaria, ecc.), d’inviare aiuti ai familiari, ma anche di rientrare in patria. Chi non ha redditi (o ha redditi «in nero») deve dimostrare la sua condizione con documenti dello stato ospitante o attraverso la testimonianza di persone di fiducia delle ambasciate o dei consolati.
Per Asmara quest’imposta è una fonte di valuta estera che fluisce nelle sue casse in contanti. Gli espatriati, infatti, non possono pagare con assegni, carte di credito, bancomat. Questo flusso di denaro insospettisce anche l’Onu. Il Consiglio di Sicurezza nella risoluzione n. 1907/2009 punta il dito contro l’imposta come possibile fonte di finanziamento delle armi destinate ai fondamentalisti islamici somali.
Sull’onda di questa risoluzione, il Canada ha chiesto all’Eritrea di cessare la riscossione. Di fronte alla perseveranza da parte dei diplomatici eritrei, il 29 maggio Ottawa ha espulso Semere Ghebremariam Micael, il console generale eritreo a Toronto. L’imposta, secondo le autorità di Ottawa, violerebbe non solo le leggi canadesi, ma anche quelle internazionali (considerato l’embargo sancito dall’Onu sul regime di Isayas Afeworki). Ma non è solo il Canada a muoversi. In Svezia un gruppo di espatriati ha presentato una denuncia alla polizia perché, a loro parere, l’imposta, oltre a violare i diritti umani degli emigrati, potrebbe anche rappresentare una violazione della Convenzione di Vienna sulle relazioni consolari (1963). La denuncia non è passata inosservata e ha iniziato a occuparsi della questione il Parlamento di Stoccolma. Anche in Svizzera e in Germania sono in corso indagini da parte dei rispettivi governi.
E in Italia? Nel nostro Paese nessuna autorità ha ufficialmente avviato inchieste. Gli eritrei denunciano l’assenza delle nostre istituzioni anche perché il mancato pagamento dell’imposta impedisce il rilascio di alcuni documenti italiani. Questo avviene, per esempio, quando un eritreo chiede la cittadinanza italiana. In questo caso le prefetture pretendono il certificato di nascita e i carichi pendenti del paese di provenienza, documenti che possono essere richiesti solo nelle ambasciate o nei consolati. Quando ai funzionari italiani vengono fatte notare le difficoltà incontrate per colpa dell’imposta del 2%, questi chiedono che si porti loro una testimonianza scritta. Testimonianze non ce ne sono perché i funzionari eritrei non rilasciano dinieghi scritti per la mancata concessione dei documenti.
Proprio per sollecitare le autorità italiane a intervenire, il 5 giugno la sezione italiana dell’Eritrean Youth Solidarity for National Salvation (Eysns), un’organizzazione che si batte per la democratizzazione dell’Eritrea, ha inviato una lettera al Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, chiedendo che l’Italia avvii «un’indagine accurata sul sistema di tassazione [eritreo], sul sistema di rilascio dei documenti e sulle garanzie di tutela ai cittadini». Non solo, ma auspicano che, «qualora gli elementi indicati risultassero provati anche da un’indagine italiana», come avvenuto in altri Paesi, si proceda «alla chiusura dei consolati e l’espulsione dei responsabili». Il governo eritreo, è scritto nella lettera inviata al Quirinale, esercita un «controllo asfissiante» sui propri cittadini all’estero. «Negli archivi dell’ambasciata e dei consolati – continua la missiva – non è solo registrato se il singolo eritreo ha pagato il 2%, ma anche se quello stesso eritreo ha o meno partecipato alle iniziative della comunità». C’è quindi una pressione costante della rete diplomatica di Asmara sui propri cittadini: «Troppi cittadini eritrei in Italia sono privati dei loro diritti in maniera arrogante da funzionari che non hanno minimo riguardo verso la dignità umana».

Enrico Casale
redazione di Popoli