Note a margine

A proposito di referendum

- 9 Giugno 2013

Ultimamente da più parti si avanzano proposte di referendum che concernono le leggi sull’immigrazione. Beppe Grillo, per esempio, ha affermato che sarebbe favorevole all’introduzione dello ius soli solo se venisse votato da un referendum. I radicali hanno proposto due quesiti referendari sul tema dell’immigrazione: con il primo si chiede l’abolizione del reato di clandestinità per riportarlo come era prima a infrazione amministrativa (per mezzo dell’abrogazione dell’Art. 10 bis del Testo Unico sull’immigrazione n. 286 del 1998 e successive modificazioni), con il secondo si vorrebbe cancellare un pezzo della Bossi-Fini, nello specifico gli articoli 4 bis e 5 bis del T.U. sull’immigrazione, il primo riguardante l’accordo di integrazione (che richiede al migrante, che intenda ottenere o rinnovare il permesso di soggiorno, il superamento di un test di competenza linguistica dell’italiano di livello elementare e alcune nozioni sui principi della convivenza civile); il secondo articolo concernente il “contratto di soggiorno per lavoro subordinato”, si vorrebbe insomma emancipare la possibilità di accedere al permesso di soggiorno dall’obbligo di avere un contratto di lavoro.
Non voglio entrare nel merito dei quesiti, né in disquisizioni di strategia politica. Chiarisco che sono a favore di una cittadinanza legata alla residenza e alla nascita; considero il reato di clandestinità una legge che di fatto autorizza la violazione dei diritti fondamentali dei migranti, inoltre esso è inutile e dannoso per gli stessi cittadini perché intasa tribunali e carceri, aumentando notevolmente i costi a carico della collettività. Così come ritengo che la Bossi-Fini andrebbe abrogata e la normativa sull’immigrazione radicalmente ripensata sulla base di principi del tutto diversi rispetto a quelli impiegati dal vecchio legislatore.
Voglio anche precisare che il referendum è certamente uno strumento fondamentale per elevare il livello di democrazia di un paese. La possibilità per i cittadini di esprimere direttamente la loro volontà ha di norma un effetto positivo in termini di partecipazione e consapevolezza. Ciò detto, ho molte perplessità su questi referendum.
Ma dove sta il problema? Democrazia significa identità tra governanti e governati. In una democrazia, i governati, cioè coloro sui quali ricadono le norme, non sono sudditi che devono semplicemente obbedire, sono anche governanti, cioè concorrono a fare le leggi a cui poi obbediranno: e questo garantisce di essere liberi pur in presenza di regole, perché le regole il popolo se le è date in autonomia.
Ovviamente nelle democrazie rappresentative la corrispondenza tra governanti e governati avviene in modo indiretto, eleggendo dei rappresentanti che poi faranno le leggi in propria vece, eccetto nel caso del referendum dove governanti e governati coincidono senza mediazioni.
Ora se i destinatari delle leggi che si vorrebbero sottoporre a un referendum sono i cittadini stranieri residenti sul territorio, privi del diritto di voto, a mio avviso salta la democraticità del referendum, perché non si verifica l’identità tra governante e governato.
È come se in occasione del referendum sull’aborto si fosse vietato alle donne di esprimersi o in quello relativo al divorzio fossero state bandite dalle urne le coppie sposate.
Come aveva dimostrato il grande giurista Kelsen, uno dei padri degli attuali stati costituzionali di diritto, l’assenza di diritti politici dei migranti residenti è una patologia della nostra democrazia, ma diventa ancora più palese e paradossale quando si parla di leggi che vanno a regolare specificatamente questo pezzo di popolazione esclusa dall’essere popolo.

Clelia Bartoli