Imprenditoria immigrata

Quando le statistiche danno i numeri

- 9 Giugno 2013

Uno studio del Cna mostra l’enorme crescita delle imprese gestite da immigrati negli ultimi anni, e una leggera flessione nel 2012. Ma le cose stanno davvero così?

Nel 2012, per la prima volta dall’inizio della crisi, diminuisce il numero di imprese con titolari stranieri in Italia. Una flessione che investe soprattutto il settore delle ditte individuali, calato del 6,7% rispetto al 2011. E che però non annulla la crescita letteralmente impetuosa registrata negli ultimi anni: dal 2007 ad oggi, le ditte individuali “migranti” sono aumentate del 39,2%, e oggi rappresentano circa il 7% del totale.

Sono i dati che emergono dall’indagine su L’imprenditoria straniera in Italia nel 2012, condotta dal Centro Studi Cna e presentata a Roma martedì scorso. I numeri dimostrano, secondo i promotori della ricerca, un notevole “dinamismo imprenditoriale” degli immigrati: del resto, il Dossier Caritas 2012 ci dice che i soci e i titolari di impresa italiani sono diminuiti del 10% dal 2005 ad oggi. Dunque, i migranti sembrano più capaci di “stare sul mercato” rispetto agli “autoctoni”. E lo straniero si rivela un perfetto “homo oeconomicus”, come direbbero gli economisti ottocenteschi.

Illusioni ottiche
L’immagine dell’immigrato “imprenditore” è in effetti suggestiva, perché fa a pugni con uno stereotipo duro a morire: quello dello straniero “pezzente”, arrivato in Italia a bordo di “carrette del mare”, che si guadagna da vivere facendo i lavori più umili (o magari, nei casi peggiori, finendo nel circuito della “microcriminalità” e della delinquenza di strada).
La Cna ci parla invece di “imprenditori migranti”. E la parola “imprenditore”, si sa, ha un effetto evocativo: fa pensare a un signore in giacca e cravatta, sempre indaffarato e con l’agenda piena di impegni, che gira in aereo e impartisce ordini via skype alla segretaria.

Certo, l’immigrato non è sempre povero. Non necessariamente fa i lavori “che gli italiani non vogliono più fare”, come si dice spesso. Ma anche l’immagine dell’«imprenditore» rischia di essere un’illusione ottica. Soprattutto se si guardano più da vicino i dati.

Uno sguardo ai numeri
Anzitutto, come ci spiegano i promotori della ricerca, il Centro Studi Cna prende in considerazione «le ditte individuali aventi titolari non italiani». Per avere un’idea un po’ più ampia del fenomeno, bisogna far riferimento ai dati forniti annualmente da Unioncamere: nei quali non compaiono solo le ditte individuali, ma anche le società «in cui oltre il 50% dei soci sia costituito da persone nate in un paese estero».

Mettendo insieme i dati Cna e quelli di Unioncamere, si scopre che gli “imprenditori migranti” sono circa 400 mila, la metà dei quali risultano titolari di una “ditta individuale”. Nel 72% dei casi, le ditte individuali operano nel settore delle costruzioni o del commercio.

E qui, per così dire, i nodi vengono al pettine. Sappiamo che molti immigrati lavorano nel settore edilizio, come manovali o muratori: ma la crisi ha colpito duro, e molti hanno perso il lavoro, o lo stanno perdendo. Così, non è difficile immaginare che qualcuno provi a “resistere” alla crisi mettendosi in proprio: basta aprire una partita Iva, acquistare un minimo di attrezzatura, e il gioco è fatto. Lo stesso può dirsi nel settore del “commercio”: chi è disoccupato prova a investire gli ultimi risparmi aprendo un negozio, o magari tentando la fortuna come venditore ambulante.

La variabile permesso di soggiorno

Nel leggere queste cifre bisogna tener conto della principale preoccupazione degli immigrati: il rinnovo del permesso di soggiorno. Dalla legge “Bossi-Fini” in poi, i documenti dei cittadini stranieri sono stati legati a doppio filo al lavoro: per rinnovare un soggiorno è necessario esibire un contratto di assunzione, e se si vive in Italia con la famiglia bisogna avere un reddito sufficiente per mantenere la moglie (o il marito) e i figli. Chi è disoccupato può rimanere in Italia per un solo anno: dopo, il permesso non viene più rinnovato.

Così, l’ultima speranza di rimanere regolari è affidata all’apertura della partita Iva: si avvia un’attività “imprenditoriale”, spesso fittizia, e così si può restare in Italia. Poi bisogna fare la dichiarazione dei redditi, ed è un momento importante, perché l’entità del 730 o del modello Unico viene attentamente controllata dalle Questure. Come si è visto, dal reddito dipende non solo il proprio permesso, ma anche quello dei familiari a carico: tabelle ministeriali alla mano, per un nucleo di quattro persone (moglie, marito e due bambini) è necessario un reddito familiare annuo di circa 14 mila euro.
Non sono pochi gli immigrati che producono fatture per lavori mai effettuati, allo scopo di far risultare entrate più alte (chi sostiene che «gli immigrati non pagano le tasse» prenda nota: spesso, si pagano tasse più alte del dovuto, allo scopo di rinnovare i documenti).

Impossibile dire quanto incidano questi fenomeni nelle statistiche. Certo è che i numeri sui titolari di impresa straniera ci dicono molto poco sui “mercati etnici” o sul “dinamismo imprenditoriale” dei migranti.
Lo stesso ragionamento vale, ad esempio, per i “collaboratori domestici” stranieri: che secondo l’Inps sarebbero circa 900.000, quasi un quinto di tutti gli immigrati presenti in Italia. Siamo di fronte a un esercito di colf venute dall’estero? C’è da dubitarne, se si tiene conto che, spesso, l’unica strada per rinnovare il permesso di soggiorno è farsi assumere da una famiglia “amica”.

A volte, il contratto di lavoro domestico “fittizio”, o l’apertura della partita Iva, servono per eludere una delle disposizioni più contestate della legge “Bossi-Fini”: quella che lega la durata del permesso di soggiorno alla durata del contratto di lavoro. Se sono assunto con un contratto a termine di un mese, la Questura è obbligata a darmi un permesso della durata di un mese: e poiché la burocrazia italiana è notoriamente lenta, e per rilasciare un documento impiega almeno due mesi, il permesso mi arriverà già scaduto. Così, per aggirare l’inghippo è molto più utile aprire una partita Iva e chiedere un permesso “per lavoro autonomo”. Oppure dichiararsi lavoratori domestici.

Le statistiche, si sa, non dicono mai tutto. Ma in questo caso, più che in altri, andrebbero prese con estrema cautela.

Sergio Bontempelli