Italiane non italiane/1

L'attesa di Liza

- 16 Giugno 2013

Liza e Monna Lisa, nate e cresciute in Italia ma cittadine straniere. Le loro storie.

«Ripensandoci ora, fino a quindici anni, sono stata molto bene. Poteva capitare che qualcuno, tra i miei compagni di scuola, se ne uscisse con espressioni un po’ razziste, ma poi si tornava a giocare, come se niente fosse. Mi sentivo già e voglio essere ancora una cittadina italiana. Dovrei esserlo, ma poi è cambiato tutto».
Liza comincia così il suo racconto, sottolineando il passaggio critico, quello in cui ha cominciato a capire che i conti non tornavano. «Mio padre viene dall’Angola, è arrivato in Italia a metà degli anni Ottanta e ha ottenuto rapidamente lo status di rifugiato. Mia madre è arrivata dopo, dalla Repubblica Democratica del Congo, come immigrata. Si sono conosciuti, si sono sposati e nel 1990, a dicembre – le date sono importanti – sono nata io, a Torino. Da Torino ci siamo spostati ad Asti dove mio padre ha trovato lavoro presso una azienda che produce solventi. Faceva anche da custode e avevamo casa lì. Vivevamo dignitosamente e io sono cresciuta in quella città sentendomi italiana e facendo la stessa vita dei miei coetanei. Certo, c’erano degli elementi di chiusura, c’era chi mi considerava diversa, soprattutto fra i genitori dei miei amici, e questo mi ha portato presto a riflettere sulla mia identità. Nel 2009 mio padre si è ritrovato ad un certo punto senza lavoro e si è convinto che in Francia ci sarebbero state maggiori opportunità. Allora ha pensato di fare estendere anche a me la condizione di rifugiata (e questa si è rivelata una scelta azzeccata) e di portarci tutti a Tolosa, mia madre, me e mio fratello minore. E questa non è stata una scelta indovinata. Fino ad allora non ero mai stata in un commissariato di polizia. In Francia siamo stati trattati come bestie, ci disprezzavano, ci umiliavano. I miei erano emigrati irregolarmente, erano “clandestini” o, come si dice lì, “sans papier” e quindi ne abbiamo viste di tutti i colori. Loro sono irregolari ancora oggi anche se spero che con Hollande dovrebbero sistemare coloro che hanno fatto richiesta di emersione. Mia madre lavorava e lavora al nero dalle 8 alle 5 del pomeriggio, oggi ha 52 anni ed ha un lavoro che ti massacra. Mio padre non riesce nemmeno a trovare lavoro e di anni ne ha 59. In quel periodo duro però mi sono anche rafforzata. Ho conosciuto altre ragazze come me provenienti dai Paesi di origine dei miei o da altre zone del continente africano ed è stato importante. Ho cominciato a capire che questo mio essere figlia di una contaminazione di culture poteva essere una ricchezza e non un handicap. Comunque, per farla breve, me ne sono tornata in Italia da un mio zio, pensando di poter chiedere la cittadinanza. Ho portato i miei documenti e mi hanno risposto che i servizi demografici del Comune mi avevano “cancellato” insieme ai miei genitori per “irreperibilità”. Nei fogli che mi hanno consegnato c’è scritto che siamo stati considerati irreperibili del 3 febbraio del 2009, ovvero quando avevo già compiuto 18 anni. All’epoca non ne avevo ancora 19 e quindi avrei potuto fare richiesta di cittadinanza ma non c’è stato nulla da fare. La sola cosa che ho ottenuto è stata la conferma dello status di rifugiato, con un documento valido per altri 5 anni. Una carta di soggiorno che ho chiesto il 7 febbraio del 2010 e che mi dà diritto di restare fino al 2015. E poi?».
Liza, all’epoca, da una parte voleva cercare di far valere i propri diritti, dall’altra pensava a come guadagnarsi da vivere e a come proseguire gli studi e poi, al di là dei pezzi di carta, per lei qualcosa era cambiato: «Tornare in Italia, sentir parlare la mia lingua, vedere i cartoni animati o programmi come Striscia la notizia, sembrerà sciocco ma per me era una gioia, era tornare a vivere. Mi sentivo finalmente di nuovo a casa. In Francia mi dicevano che parlavo con la voce troppo forte, come gli italiani e che come gli italiani gesticolavo troppo. Ma io sono questo e ne ero diventata consapevole, un’italiana nera e basta». Liza ha iniziato un percorso da adulta: è andata a vivere da sola, prima in Francia pagandosi l’affitto, poi quando è tornata in Italia, lo scorso anno, si è fatta ospitare dalla Caritas e ha svolto lavori saltuari (baby sitter, pulizie, ecc.). Si è iscritta all’Università ad Aosta. Un corso di laurea particolare che la porta ad occuparsi di comunicazione e che si svolge per il primo anno in Italia e per il secondo in Francia, un corso che prevede stage all’estero e che dovrebbe concludersi con la laurea nel 2014. «Ma con l’università capisco anche bene i guai in cui sono finita, per colpa di una assurda burocrazia. Non avere la cittadinanza, non avere un documento valido, mi limita molto e mi procura dei danni. In concreto: la Regione Valle d’Aosta mi sostiene con una borsa di studio di 6.000 euro l’anno, se fossi cittadina italiana o di un altro paese dell’Ue, avrei diritto, in Francia, ad un posto per dormire con gli altri studenti. Invece non posso usufruirne e dormo “clandestinamente” da compagne di università o grazie a conoscenze fortuite. Un’altra cosa, apparentemente banale. Vorrei fare lo stage negli Usa o in Australia, ma non avendo i documenti, i miei movimenti sono limitati, non posso uscire dall’Europa. Sono ambiziosa – non credo che ci sia nulla di male – vorrei fare di più e sogno di poter comperare una casa per i miei genitori e farli finalmente riposare, ma in questa situazione non ho neanche diritto ad aprire un’impresa. Paradossalmente e per fortuna, mio fratello, che vive in Francia con i miei, sembra destinato a una sorte diversa: da minorenne è stato tutelato dalla legge francese e ora dovrebbe poter avere la cittadinanza».
Dalle questioni personali Liza si sposta verso un ambito più generale di riflessione: «La legge italiana, ostacolando in questo modo la vita delle persone, non rende un buon servizio al Paese. Eppure, per uscire dalle difficoltà oggi bisogna aprirsi, includere. Nessuno si salva da solo. L’Africa intera è destinata ad essere il continente del futuro, quello su cui investire, non in maniera colonialista, ma partendo dal presupposto che ognuno ha bisogno dell’altro. Persone come me potrebbero essere utili. Il mio sogno è sviluppare le interrelazioni a livello commerciale fra i due continenti e potrei dare veramente una mano. Io posso farcela e ho gli strumenti giusti. Non lo dico per superbia, ma credo di poter essere, con la mia multiculturalità, un piccolo trampolino. Non capisco la paura di estendere la cittadinanza, come se fosse un privilegio che apre tutte le porte. Non è che se hai la cittadinanza ti fanno i prestiti in banca o immediatamente hai successo. La legge va cambiata perché queste regole e la maniera con cui vengono interpretate, diventano ostacoli micidiali per la vita di tante persone che vivono in Italia e appartengono a questo Paese. Persone che potrebbero dare un utile contributo e invece sono tagliate fuori. Questi ostacoli danneggiano tutta l’Italia».

Stefano Galieni