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L'arte nei campi profughi

- 16 Giugno 2013

Non è una trovata da anime belle e naïf. Ci sono almeno dieci buone ragioni per portarla. Se ne parla sull’ultimo numero della rivista accademica Forced Migration Review.

Autrice dell’articolo è Awet Andemicael, musicista e  scrittrice, impegnata attualmente in un dottorato in teologia all’università di Yale e autrice di una ricerca estesa su questo tema, pubblicata dall’Unhcr. I campi profughi, lo ricordiamo, sono luoghi dove vengono raccolte le persone che scappano sia da guerre o persecuzioni che da disastri ambientali. Famiglie o singoli, costretti da situazioni esterne,  completamente fuori dal loro controllo, a fermarsi in questi durissimi non luoghi, per giorni, settimane, mesi e in alcuni casi anni (si pensi ai campi profughi palestinesi, somali o sarawi). Forzati a vivere di fatto in un limbo, sospesi tra quello che erano, che forse non saranno mai più e un futuro incerto.
Il punto di partenza, nel ragionamento di Andemicael, è il seguente: le attività nei campi profughi sono limitate, le possibilità di impiego rare. Allora, perché non impiegare il troppo tempo a disposizione per fare qualcosa di creativo e produttivo che contemporaneamente permetta al rifugiato di scollegarsi da un contesto duro e penalizzante? Questa è la prima buona ragione. Come scriveva Goethe ne Le affinità elettive: «Non c’è via più sicura per evadere dal mondo, che l’arte; ma non c’è legame più sicuro con esso che l’arte». E non c’è bisogno di essere artisti per incamminarsi lungo questa via, per cercare questo legame. Tutti possono cimentarsi in una forma d’arte o di rappresentazione culturale.
La seconda ragione è che l’attività artistica può aiutare a confrontarsi con la fatica di vivere in una situazione ad alto impatto di stress come un campo profughi. Ovviamente non si tratta di un succedaneo del sostegno psicologico o psichiatrico, ma di un ausilio reale e potente nell’espressione e nel riconoscimento delle emozioni e anche nel fare i conti con la memoria e i ricordi. La terza è che può permettere sia agli adulti sia ai ragazzi di aumentare l’autostima e la fiducia nella propria possibilità di azione. La quarta è che può nutrire quel bisogno di spiritualità che, con intensità diverse, tutti gli esseri umani portano con sé. E che molto spesso si fa più acuto nelle situazioni estreme.
Se i primi quattro buoni motivi sembrano afferire alla sfera più personale e privata dell’individuo, i successivi vengono ad avere una valenza sociale e relazionale molto più marcata. Date le difficoltà e le tensioni che quotidianamente i rifugiati vivono nel campo, cantare le proprie canzoni, raccontare e rappresentare le storie tradizionali può essere utile per rafforzare il gruppo e creare coesione al suo interno. Ma è anche un modo semplice e diretto per trasmettere certe conoscenze ai bambini e custodire le tradizioni (quinta ragione). Come può essere un modo per riuscire a portare a galla temi che altrimenti, affrontati in maniera diretta, potrebbero causare imbarazzo (sesta). Fare una rappresentazione teatrale, crearci sopra una storia, può essere il primo passo per aprire una discussione su un punto spinoso.
L’arte favorisce la coesione all’interno di un gruppo, dunque, ma facilita anche i rapporti tra gruppi diversi (che spesso si trovano a convivere in uno stesso campo, si pensi all’esperienza di Shousha in Tunisia), perché offre uno strumento e un linguaggio comune (settima ragione). Può essere anche un modo per allacciare rapporti con la comunità ospitante, visto che spesso i campi sono allestiti nei Paesi confinanti (ottava). Riuscire a trovare momenti in cui, attraverso attività artistiche e culturali, le varie comunità entrano in contatto, ciò può essere utile a farsi apprezzare, ad abbattere pregiudizi e diffidenze creando così un dialogo. Per rendere la convivenza più semplice e fare di essa un’occasione di arricchimento generale.
L’arte rappresenta dunque un modo per esprimersi ed entrare in contatto con se stessi e con gli altri, ma anche uno strumento efficace, dal punto di vista delle organizzazioni che nei campi sono chiamate a lavorare, per comunicare con gli adulti e fare arrivare messaggi. Invece che delle brochure, possono ricorrere a rappresentazioni: per far passare delle informazioni, mettere delle regole, riuscire ad affrontare argomenti che altrimenti sarebbero di difficile comprensione (nona ragione). Infine, può essere un modo per acquistare competenze come l’autodisciplina, la pazienza, rafforzare la creatività e altre che potranno essere utili una volta usciti dal campo, quando la vita riprende il suo passo e bisogna pensare a come ricostruire un’esistenza “bloccata” a volte per anni (decima).
Chi scrive, e ha tradotto e sintetizzato l’articolo di Andemicael, si trovava dentro al Cpsa di Lampedusa la notte successiva all’incendio del 2011. Un ragazzo tunisino che conoscevo mi avvicinò e iniziò a raccontarmi di come aveva vissuto quella terribile esperienza. Dopo poco, non ricordo neanche come, cominciò a parlarmi del suo libro preferito, Viaggio al termine della notte, di Céline. Mi raccontò tutta la trama, come aveva conosciuto il libro che cosa ne pensava. Poteva sembrare assurdo visto il contesto ma era il suo modo per aggrapparsi a un briciolo di normalità, a qualcosa che amava, per ricordarsi chi era, senza farsi prendere dalla paura. E questo, mi permetto di aggiungere, può essere un motivo in più.

Francesca Materozzi