Arte contemporanea

Mediterranea 16

- 23 Giugno 2013

Fino al 7 luglio Ancona ospita la Biennale dei Giovani Artisti del Mediterraneo. Giuditta Nelli è andata a visitarla e ce la racconta.

Il desktop del mio computer, di solito maniacalmente in ordine, stamani appare pieno di post-it, scatti fotografici e note di testo: tutto parla di Mediterranea 16.
Tornare da una biennale è un po’ come tornare da un lungo viaggio e, come dopo un lungo viaggio, oggi riordino i souvenir e le suggestioni, accumulate tra le opere di questa esposizione.
Scrivo e mi godo la sedimentazione dell’esperienza vissuta.
Sono appena rientrata da Ancona, città che – dal 6 giugno al 7 luglio – ospita la Biennale dei Giovani Artisti del Mediterraneo. Come al solito, sempre a metà tra qualcosa e qualcos’altro, ho preso parte alle giornate di apertura, vivendole da un punto di vista particolare: io, artista e curatrice di un collettivo, sono stata referente di ArciLiguria, uno dei membri dell’associazione internazionale promotrice dell’evento, partecipando all’inaugurazione usando un forte spirito critico, unito a grande entusiasmo. Come d’abitudine, durante il vernissage mi sono mossa appuntando scatti digitali, come fossero note su un quaderno. Qui vi racconto questi appunti, rivivendo quelle opere dell’area delle arti visive che – nonostante la confusione e l’energia, anche dispersiva e tipica delle inaugurazioni – hanno saputo conquistare tutta la mia attenzione.

Ore 18. Bevo un bicchiere di vino, in compagnia di artisti e promotori protagonisti e poi, ascoltate le frasi di apertura e di rito, imbocco velocemente le scale d’ingresso.
Mi immergo negli straordinari spazi della Mole Vanvitelliana, ospite dell’evento.
All’ingresso, subito, una grande installazione – immediatamente comprensibile (quando visito le mostre, penso sempre: mia mamma la capirebbe ‘sta cosa?), ma non per questo banale.

Oussama Tabti, artista algerino, usa i puntali scaccia piccioni per ricreare le 12 stelle del logo dell’Unione Europea. Subito si manifesta la metafora, subito si entra nel tema di questa biennale: “Errors allowed / Gli errori sono ammessi”. Ma cos’è l’Errore? E dove sta? Chi sarebbe in errore, dunque? I puntali stanno lì, su una parete 4×4. Il rimando, immediato, è alle misure anti-immigrazione e mi sento punta, come se fossi io – per una volta – a tentare di approdare ad una nuova vita, ad una nuova possibilità e fossi respinta. Ottimo inizio: sono dentro il tema.
Mi fermo di nuovo: davanti a me, una stampa fotografica ritrae un giovane su quello che sembra un viadotto ferroviario. Ha in mano due angurie, messe una sull’altra; le regge, a mo’ di equilibrista. Lui, Driton Selmani, del Kosovo, titola la sua opera con un antico detto albanese, tradotto in inglese: «They say: “You can’t hold two watermalons in one hand”». L’immagine è delicata, anche un po’ vintage-modaiola, forse, leggera; ma è stata scattata tra il confine albanese e quello kosovaro, sul ponte che si trova nella fascia neutrale che unisce le due nazioni. Vero: non si possono reggere due cocomeri in una mano, né ottenere due cose allo stesso tempo, né stare a metà tra qualcosa e qualcos’altro, quando non si è liberi di sceglierlo. Non si parla di desideri (o forse, sì) o giochi di prestigio, qui, ma di identità, di dicotomie tra società e nazionalità, tra politiche esterne e tradizioni interne. L’artista ammette gli errori. Altissimo livello di contenuti: questa Biennale non delude.
Attraverso un percorso curatoriale estremamente coerente, arrivo al lavoro di una ragazza libanese, Marie Thérese Saliba, che mi conquista, perché mi ricorda qualcosa che mi è estremamente familiare, qualcosa che – nei miei viaggi – non ho avuto l’idea di fare: raccogliere, sui tanti taxi presi, le tracce di coloro che mi hanno preceduto sui sedili. Marie Thérese lo fa: li mette a collage con gli arbres magiques, con i giochini, con le foto che regolarmente i tassisti appendono ai loro retrovisori. In un’istallazione di cornici e composizioni, include, in un ambiente collettivo, l’individualità dei singoli (conducente e cliente): tanti specchietti, tanti sguardi nel retrovisore, tanti feticci, tutte tracce, che includono anche lo spettatore nel ‘noi’ ricreato ad arte. Mi sento inclusa: “Mirror mirror”. Scatto una foto e vado oltre.
Ancora con questo piacevole sorriso stampato sul viso, ripensando ai mille taxi dakaroises della mia vita, arrivo allo spazio di Ahmed Kamel. In un attimo, lo sguardo mi si fa serio.
10 fotografie mostrano alcune tra le centinaia di persone che sono state ferite durante le rivolte egiziane, perdendo parzialmente la vista. La totale assenza di volontà pietistiche o sensazionalistiche, disorienta: un ragazzo egiziano fotografa la sua realtà, punto; la sua famiglia, forse, i suoi amici, anche. Noi siamo lì, a guardare quegli occhi quasi spenti, velati, in momenti qualunque di vite qualunque. Che mi fanno male. L’artista può dire/ferire/riferire più di chiunque altro: amo il mio lavoro.
Un altro click.

In un angolo meno illuminato, un po’ defilato e privato, trovo altri ritratti: nove lavori ‘dipingono’ Mohamed Bouazizi, il giovane attivista che – con la sua immolazione – ha condotto alle prime proteste della rivoluzione tunisina. Majd Abdel Hamid – artista nato in Siria – ricama, in collaborazione con un gruppo di donne che provengono dal villaggio palestinese di Farkha, la figura del giovane protagonista: i fili in colori pop, restituiscono una composizione alla Warhol, che intelligentemente contrasta con le immagini di un rogo umano, amplificando il ricordo del sacrificio per la libertà.
Ci vuole un pochino di (finta) leggerezza, ora. Mi imbatto in un’opera pulita pulita: Sirine Fattouh, libanese residente a Parigi, presenta una serie di francobolli di diversi paesi. Ciascun francobollo ritrae una donna velata e gioca con lo stereotipo, usando l’immagine stereotipata medesima. La ripete infinite volte. Con “The perfect arab artist”, l’autrice riflette sulla percezione che si ha – sia in Europa che nei paesi di origine – dell’arte prodotta dagli arabi. Ci dà esattamente quello che, da cliché, ritiene che ci si aspetti: una donna velata, appunto (l’artista, probabilmente). L’ironia è rivolta, però, anche all’artista arabo medesimo, che non è immune dagli stereotipi che ha incollati addosso e che, talvolta, li cavalca.
I like it.

Saltando di sala in sala, incontro The kingdoms of unger. Non fotografo l’opera (l’immagine che allego è uno scatto fatto alla pagina del catalogo), ma ve ne parlo. Gian Maria Tosatti, romano, realizza un’installazione un po’ urlata, seppur minimale: denti umani emergono dal pavimento. L’artista ci parla dei “regni della fame” pasoliniani, ripensa ai sacrifici di coloro che hanno tentato la traversata di fortuna, per raggiungere l’Italia via mare. Non conosco il percorso di Gian Maria e resto lievemente interdetta, ma apprezzo la forza che l’opera ha nel portare il messaggio. In fondo, come dicevo all’inizio, la comprensione deve essere per tutti (anche per mia mamma). E metto via la mia lente d’ingrandimento, pur sempre deformante, costruita in tanti anni di attenzione a questi temi.
Chiudo il mio cammino, con l’istantanea dall’alto di uno spazio dedicato all’installazione di Charbel Samuel Aoun, di nuovo, libanese. Una decina di telefoni, di diverse fogge, forme ed epoche, portano ad Ancona la “Voce degli invisibili”. Senza preavviso, come capita, uno di questi telefoni suona. Il visitatore risponde: alla cornetta, la voce di una delle persone che l’artista ha incontrato durante i suoi viaggi nel Mediterraneo e che, nella propria lingua d’origine, racconta un momento doloroso della propria vita. Squilla. Rispondo io. Se non avessi letto la didascalia non avrei mai saputo di ascoltare parole tristi. E la cosa non mi interessa: indisciplinata come sempre, trattengo solo l’emozione del sentire e non capire, ma percepire di essere con qualcuno, legata da un filo che – ora – è una voce, ma che sento sempre.

Ecco. Questa è la mia Mediterranea 16. Tutto meraviglioso? Quasi.
Mi è restata, dentro, solo una piccola malinconia: il luogo che ci ha ospitato, da Lazzaretto che era, s’è rivelato estremamente adatto ad un’esposizione d’arte, confermandosi come nuovo centro generativo, dedicato alla cultura e all’incontro. E questo è straordinario; ma non per forza includente. La manifestazione s’è mostrata isolata. Io – inevitabilmente, sempre public artist – ho desiderato stare con i cittadini, con quelli che, come mia mamma (sorrido), faticano a credere che l’arte possa essere uno strumento di tutti, che possa parlare di errori ammessi e/o non ammessi, in termini chiari, politici anche.
La Bjcem, ha raggiunto, con la qualità delle opere ed il lavoro degli otto curatori di questa edizione, un eccellente livello. Entrata ed uscita, ibrida, ho calvalcato questa mia posizione di frontiera, augurandomi che, sicuramente mantenendo questa qualità, nel 2015 la Biennale – come da motivi ispiratori – riesca a farsi sentire più profondamente come parte attiva dei territori, meno vetrina per l’arte, vera piattaforma di scambio, tra aree geografiche, tematiche, artistiche, sociali e personali.

Giuditta Nelli