Bosnia

Occupy Sarajevo

- 23 Giugno 2013

In Bosnia, la protesta contro la burocrazia dei passaporti e dei documenti di identità scatena un nuovo movimento popolare: che per la prima volta assume connotati inter-etnici

I media internazionali l’hanno definita “baby revolution”, la rivoluzione dei bambini. I protagonisti la chiamano bebolucija, che in italiano suona più o meno come “beboluzione” (rivoluzione dei bebè). E il suo simbolo, manco a dirlo, è un pugno chiuso che si innalza da un ciuccio per neonati.
Stiamo parlando della vera e propria rivolta che, partita da Sarajevo, è dilagata in tutta la Bosnia, travolgendo le divisioni “etniche” e mettendo sotto accusa l’intera classe politica del paese: una rivolta nata, appunto, dal caso di una bambina. Per capire cosa è successo, dobbiamo fare un piccolo passo indietro, di qualche settimana.

Il caso Belmina: quando i politici (non) danno i numeri
Siamo alla fine del mese di maggio, a Sarajevo. Belmina Ibrišević ha appena tre mesi, e i medici le hanno diagnosticato una grave malformazione congenita: per poter sopravvivere, la piccola deve sottoporsi ad un trapianto di midollo, un intervento complesso che nessun ospedale bosniaco è in grado di effettuare. Così, i genitori decidono di portare la bambina in Germania, e come sempre accade in questi casi, vanno a chiedere il passaporto.
Proprio qui nasce il problema. Per avere un qualsiasi documento, bisogna infatti esibire il Jedinstveni Matični Broj Gradjana, cioè il «numero unico di identificazione», che viene di norma assegnato alla nascita: più o meno l’equivalente bosniaco del nostro codice fiscale. Belmina non può avere il passaporto perché non dispone di questo codice. Ma perché la piccola non ha il suo numero come tutti gli altri bambini bosniaci?
La colpa non è sua, ci mancherebbe altro. Ma non è nemmeno dei suoi genitori, e neanche di qualche maldestro e prepotente funzionario di provincia che si rifiuta di fare il proprio dovere. È proprio lo Stato che, da febbraio, non rilascia più alcun codice. A nessuno.

È successo infatti che Milorad Dodik, politico nazionalista e presidente della «Republika Srpska» (la regione autonoma a maggioranza serba), si è rivolto alla Corte Costituzionale per protestare contro i criteri di attribuzione dei codici identificativi: nell’assegnare tali codici, infatti, i Comuni della regione serba venivano ancora chiamati con la doppia denominazione (quella serba e quella “bosgnacca”). Una cosa molto grave, secondo Dodik, perché quei Comuni sono serbi, e devono essere chiamati col nome serbo.
La Corte ha dato ragione al politico, e ha sospeso la legge sui numeri identificativi. Risultato: per una questione di denominazione dei Comuni, nessun neonato può avere un passaporto. E la piccola Belmina non può curarsi in Germania.

Il buon senso ostaggio dei nazionalismi
Non è la prima volta nella storia che i nazionalismi tengono in ostaggio il buon senso. E, certo, cose del genere non accadono solo in Bosnia. Ma qui siamo nel cuore dei Balcani usciti dalla guerra, dai massacri e dalla pulizia “etnica”: un luogo dove i nazionalismi hanno devastato popoli da sempre abituati alla convivenza.

Gli accordi di Dayton, che hanno messo fine al conflitto jugoslavo, hanno costruito una complessa macchina burocratica e amministrativa fondata proprio sulla divisione “etnica” del paese. Oggi la Bosnia ed Herzegovina è una federazione che raccoglie due “entità” nazionali, la Repubblica Serba di Bosnia (Republika Srpska) e la Federazione di Bosnia ed Herzegovina (Federacija Bosne i Hercegovine), croato-musulmana. Quest’ultima è a sua volta formata da 10 “cantoni”, dotati di ampia autonomia, e disegnati sulla base delle divisioni “etniche”. La presidenza viene esercitata a rotazione dai politici delle tre diverse “etnie” che compongono il paese.

Insomma, l’architettura istituzionale della Bosnia è fondata sulla divisione in gruppi nazionali, e tutta la politica del paese è segnata dai nazionalismi: la vicenda della piccola Belmina ha fatto emergere l’aspetto insieme grottesco e tragico di queste ossessioni identitarie. E ha scatenato il furore dei bosniaci, che si sentono presi in giro: i politici nazionalisti si ergono a protettori delle rispettive “etnie”, ma hanno avallato politiche di austerità che colpiscono tutti.

La rivolta
Così, quando si è diffusa la notizia della piccola Belmina, alcune decine di cittadini di Sarajevo hanno cominciato a protestare silenziosamente davanti al Palazzo del Parlamento. In poche ore, grazie al tam-tam dei social network, i manifestanti sono diventati migliaia.

Gli “indignati” bosniaci mostrano le foto di Belmina, inveiscono contro i politici e contro le loro prepotenze ai danni dei cittadini (uno degli slogan recita “per voi, non siamo nemmeno un numero”). Ma la novità principale della protesta è la sua capacità di superare le divisioni indotte dai nazionalismi: ai dimostranti di Sarajevo si sono uniti nel giro di pochi giorni gli studenti di Banja Luka, città della zona serba. La rivolta è trasversale, così come trasversale è l’ostilità nei confronti della classe dirigente: lo slogan del presidio davanti al Parlamento, diretto ai politici, è “ci fate schifo a prescindere dall’appartenenza nazionale”.

Il 6 giugno scorso, i manifestanti sono diventati una fiumana, e hanno deciso di “prendere in ostaggio” il Parlamento: nessun deputato sarebbe uscito dall’edificio, finché non fosse stata approvata una legge sui numeri identificativi. La determinazione dei manifestanti ha costretto il Primo Ministro, Vjekoslav Bevanda (Hdz), a scappare dalla finestra, mentre i politici sono stati “liberati” solo grazie alla mediazione notturna dell’Alto Rappresentante per la Bosnia Herzegovina.

Travolti dall’ondata di manifestazioni, i ministri sono stati costretti a varare un decreto di urgenza, che consente temporaneamente il rilascio dei numeri identificativi. Ma i manifestanti chiedono una legge definitiva, non una “toppa” provvisoria. E nel frattempo, i motivi della protesta si stanno moltiplicando. A Sarajevo si chiede l’attivazione di un fondo speciale per i malati gravi, da finanziare con il taglio degli stipendi ai politici; a Banja Luka gli studenti contestano la mancanza di alloggi universitari.
Gli occhi sono puntati su Istanbul e sulla rivolta di Gezi Park, che da queste parti sembra rappresentare la prima miccia di una “primavera balcanica”.

Sergio Bontempelli