Note a margine

Se io fossi Cécile

- 23 Giugno 2013

Mi è giunto questo articolo firmato con lo pseudonimo di L’Amanuense. È la lettera che l’autore, se fosse stato nei panni della ministra dell’Integrazione, avrebbe spedito a Giovanni Sartori in risposta al suo intervento L’Italia non è una nazione meticcia. Ecco perché lo ius soli non funziona pubblicato sul Corriere della Sera di qualche settimana fa. E io ve lo propongo tra le mie Note a margine.

Stimato Prof. Sartori

prendo atto con sincera meraviglia di quanta autorevole e circostanziata attenzione abbia voluto dedicarmi allo scopo di mettere in dubbio le mie attitudini e le mie competenze in materia di politiche dell’integrazione, in quanto titolare – a Suo dire inadeguata – di un dicastero che anche Lei, mi sembra d’aver compreso, giudica strategico.

A questo inaspettato “onore”, data la natura e la pesantezza dei rilievi che, senza peli sulla lingua, mi vengono mossi, si accompagna per me l’onere di una replica, nel pieno e ossequioso rispetto del diritto di critica (suo, come di chiunque altro) e nella serena consapevolezza del divario tra la sua riconosciuta autorevolezza scientifica e culturale di politologo e la mia “inesperienza” di ministro debuttante all’interno dell’esecutivo guidato da Enrico Letta, da Lei definito un “governo brancaleone da primato, disseminato di ministri e sottosegretari ignoranti”. Quanto alla mia personale inadeguatezza, nel suo editoriale pubblicato sul Corriere della Sera il 17 giugno scorso, Lei sembra collegarla al mio essere congolese (dunque irrimediabilmente “straniera”), medico oculista (quindi sprovvista di specifiche competenze tecnico-politiche), nonché al sospetto (naturalmente solo implicito e ben mimetizzato) d’essere stata selezionata in fondo solo per questioni d’immagine, cioè in quanto “nera”.

Non certo per impertinenza (me ne guarderei bene!), ma solo per sdrammatizzante autoironia, mi verrebbe da commentare come questa sua vibrante polemica, mossa nei miei riguardi da motivazioni di sicuro genuinamente intellettuali, possa essere in fondo equiparata ad una sorta di definitivo battesimo del fuoco della mia “integrazione” nel tormentato panorama della società e della politica italiane: una “certificazione” di incompetenza che – pur avendo intenzioni fino a prova contraria del tutto limpide ed essendo di natura tutt’altro che ascrivibile a rigurgiti razzisti – si aggiunge alle minacce, agli insulti, alle volgarità, alle insolenze, alle istigazioni allo stupro, che hanno sgradevolmente scandito la mia nomina e le mie prime settimane di impegno ministeriale. Una integrazione all’italiana. Quando si dice che l’eterogenesi dei fini si ingegna ad ordire uno dei suoi tiri mancini!

Ma veniamo al merito dei suoi rilievi.

Lei si domanda cosa ne sappia io di integrazione.

Beh, a questo interrogativo mi consenta di replicarle che tutta la mia esistenza in Italia è stata un laboratorio vivente – e a mio giudizio riuscito – di integrazione culturale, sociale, politica, professionale, affettiva: sono una donna “nera”, nata in Congo, trasferitasi in Italia all’età di 19 anni, residente a Modena, laureata in medicina, sposata con un italiano e madre di due figlie italiane, che ha esercitato la professione di oculista, con esperienze di forte impegno sociale nel campo del volontariato e del sostegno ai migranti, eletta in Consiglio provinciale, successivamente in parlamento e infine nominata ministro. Alla luce di questa esperienza vissuta sulla mia pelle in 30 anni di permanenza in Italia mi concederà il diritto di sentirmi autorizzata a parlare con cognizione di causa di integrazione?

Ma parliamo adesso della sua avversione a concedere la cittadinanza italiana agli stranieri in base al principio dello ius soli.
Per quanto scientificamente dimessa e approssimativa possa apparirle, confido che possa bonariamente condividere con me la seguente “definizione concreta” di cittadinanza: il diritto di appartenere a pieno titolo – con diritti, regole e doveri – all’habitat sociale, culturale e politico nel quale ci si trova a vivere, per caso o per libera scelta.

Di sicuro c’è che chi nasce in Italia da genitori stranieri, come qualunque altro essere umano al mondo, non porta responsabilità alcuna di questa “fortuita” circostanza.
Stando alle norme vigenti, da quel momento in poi gli occorreranno 18 anni per “diluire” il suo sangue straniero e per sudarsi il diritto a diventare italiano, non solo di fatto, ma anche di diritto. Un percorso individuale scandito da continue sfide e prove – un tempo si sarebbe detto di profitto e condotta – per dimostrare di meritare l’appartenenza a pieno titolo alla comunità con cui ha imparato a convivere, della quale ha avuto il tempo di assimilare lingua, dialetti, slang, usi, costumi, codici di relazione interpersonale. È questo che lo connota sostanzialmente come immigrato di seconda generazione, rispetto ai suoi genitori, cui spetta lo status di migranti di prima generazione.

Gentile Prof. Sartori, non trova che un siffatto curriculum basti e avanzi all’immigrato di seconda generazione per meritarsi d’essere cittadino italiano?
Proporre come fa Lei di sostituire all’istituto della cittadinanza per ius soli quello che Lei definisce “residenza permanente trasmissibile ai figli”, non finisce col dissociare il diritto alla cittadinanza dal merito ad ottenerla, trasformando una conquista individuale in un appannaggio ereditario e in qualche misura perfino parassitario?
Sostenere poi che lo ius soli sia un istituto giuridico applicabile solo ai Paesi non sovrappopolati e dunque bisognosi di nuovi cittadini, non cambia la sostanza delle cose: quel che lo straniero divenuto cittadino italiano sottrae agli autoctoni in termini di opportunità e di risorse lo farebbe comunque nella sua qualità di titolare di “residenza permanente trasmissibile ai figli”.

Quanto alla tesi da Lei attribuitami secondo la quale i bimbi africani e arabi “sono automaticamente integrati”, non trova che sia in palese contraddizione con l’esistenza stessa di un ministero dell’Integrazione? Di fronte a un presunto automatismo dell’assimilazione culturale dello “straniero” da parte della comunità indigena, a cosa servirebbe un simile dicastero, che, al contrario, postula strategie e percorsi che guidino in modo avveduto, assecondino, disciplinino e conducano a buon fine il medesimo percorso di integrazione?

Riguardo infine alla citazione del Sultanato di Delhi e dell’impero Moghul come esempi plateali di irriducibilità tra etnie e religioni che hanno visto fallire clamorosamente e sanguinosamente un artificioso processo di coabitazione forzata, non trova che all’origine di tali conflitti, più che un problema di natura culturale e antropologica, ce ne sia uno di natura più squisitamente politica: contese tra poteri che tessono le loro trame di dominio a loro uso e consumo? Ma questo è superfluo, anzi offensivo, rammentarlo a un politologo del suo calibro.

Prima di congedarmi da Lei mi permetta di rassicurarla che sarà quanto prima mia cura leggere con estrema attenzione il suo volume Pluralismo, Multiculturalismo e Estranei. Stia pur certo che saprò farne tesoro, da sfegatata sostenitrice qual sono delle cultura e della politica dell’integrazione.

Con stima,

Lo Pseudo-Cécile