Storie forti

Un uomo in fuga

- 23 Giugno 2013

Prima il lavoro, poi il carcere, il Cie e la fuga. Una corsa per l’Europa che a Ghazim ha lasciato solo rancore.

Sono molti gli ospiti che riescono a scappare dai Cie. Quanti non si riesce mai a sapere con esattezza. Così come è raro conoscere, soprattutto dal loro punto di vista, cosa accade dopo. Chi si allontana volontariamente non commette tecnicamente un’evasione, un reato, perché formalmente non è un detenuto. Le autorità non sono dunque tenute a dare conto in modo preciso di questi episodi. E la fuga viene a volte facilitata per diminuire le tensioni interne.

La storia che segue è quella di un uomo fuggito dal Cie e poi tornato, per ragioni proprie, nella città della fuga. Ghazim ora è lontano, forse ancora in Europa, forse rientrato nel Paese d’origine. Un rientro volontario sui generis, respinto ma non concretamente espulso. E prima di andarsene ha voluto raccontare la propria verità. Ha chiesto di incontrarlo in un chiosco di kebab nei pressi della stazione Termini. Si guarda continuamente intorno. Ha 29 anni, così dice, ma ne dimostra 10 di più. È alto e magro da far paura, i capelli scompigliati che scappano da un cappellino colorato, una maglietta scura e un paio di jeans. Ma è il volto che non si dimentica, gli occhi, capaci di comunicare più delle parole rabbia e timore, senso di sconfitta e orgoglio ferito e le rughe che solcano il volto. In una Roma dove l’estate è appena cominciata, è tornato perché doveva avere dei soldi da amici, ma vuole riscappare al più presto: «Io ho sbagliato – dice – ma questo è un paese cattivo, in cui a volte chi ha la divisa è più cattivo di tutti».

Tre anni fa Ghazim era rinchiuso nel Cie di Ponte Galeria, lo avevano portato lì dopo un anno di carcere per spaccio di stupefacenti. Ci è rimasto 20 giorni, giorni che ancora ricorda con terrore. Mangia avidamente il kebab e racconta, con un italiano inframezzato da parole in francese, ma facile da comprendere. «Sono arrivato in Italia quando avevo 20 anni ma non mi sono fatto fregare dagli scafisti. Prima sono passato dal Marocco, il mio Paese, alla Spagna. Ho lavorato un po’ sulle spiagge e i miei paesani mi hanno consigliato di andare in Italia. Non è stato difficile, avevo un po’ di soldi da parte e da Mentone ci sono i taxi che ti portano a Ventimiglia senza troppe domande, basta pagare. Sai qual è il trucco? Entrano in Italia con un finto cliente, possibilmente donna, chiaramente bianco. Nessuno ti disturba, basta vestirsi puliti. Ho lavorato per un certo periodo, sempre in spiaggia, in un paese bello sul mare. Mi pare si chiamasse Rapallo. D’estate a vendere borse, d’inverno rimediavo qualche lavoro da muratore».

Ghazim racconta di essere sceso a Roma perché pensava di trovare più facilmente lavoro, ma le cose non sono andate subito bene per lui: «A dire il vero all’inizio avevo trovato un posto che pareva buono, scaricavo pesce ai mercati generali – e sembra parli della vita di un altro – Faticavo, mi pagavano poco e non sempre per me c’era lavoro. Dormivo da uno che voleva 200 euro al mese per l’affitto e io volevo anche mandare qualcosa a casa. Poi ho litigato col padrone e ci siamo presi a schiaffi. Mi aveva detto “marocchino di merda” e io ho risposto. Dovevo pagare l’affitto e di soldi ne avevo pochi. Allora mi incontra un egiziano che mi dice: “ti aiuto io”. Insomma, sono finito a spacciare fumo e erba. Dovevo stare attento perché a Rapallo mi avevano già dato una espulsione e se mi ribeccavano erano casini. Invece mi sono fatto prendere come un cretino. Ero al Pigneto, hanno fatto un pattuglione in cui fermavano tutti gli stranieri e chiedevano i documenti. Io sono scappato a casa. Loro mi hanno seguito e sono entrati. Dentro c’era un pacco di fumo che mi era stato affidato. È finita con schiaffi e manette. In galera stavo male e non mangiavo. Una volta, di notte, eravamo in 4, le guardie sono entrate in cella e hanno cominciato a menarci senza motivo. Dicevano che avevamo la roba, ma non hanno trovato nulla perché non c’era nulla. Uno, il giorno dopo mi ha pure chiesto scusa, ma mi ha anche detto: “se facciamo così ci rispettate altrimenti non riusciamo a lavorare”.

Poi mi sono abituato e mi è venuta voglia di casa. Mi mancava mia madre a cui non volevo dire che stavo in galera. Ma stavo zitto perché in galera se ti mostri debole sei finito, anzi, facevo il duro perché solo così ti trattano meglio». Finita la condanna Ghazim pensava di aver pagato il conto. «L’avvocato d’ufficio era convinto che mi avrebbero rimpatriato, io ho dato la mia identità perché non ne potevo più, invece è andata in un’altra maniera – e lì la sua voce sembra rompersi – Mi hanno ammanettato, avevo un sacco con le mie cose e mi hanno portato con la volante in un posto con le sbarre alte. Io ho cominciato a incavolarmi, ho detto che si sbagliavano e la risposta è stata : “stati tranquillo, il tempo di un timbro e te ne rivai fra i cammelli”. Mi sono ritrovato in un posto di morti in piedi. Chi era già lì mi ha spiegato cosa era un Cie e che dovevo avere pazienza. Pazienza? Impossibile fra tossici in astinenza, persone che stavano male o erano fuori di testa. Da mangiare era uno schifo e la sera nella mia cella c’era uno pericoloso che pretendeva la tv a volume alto. Alle 11 si spegneva tutto e dovevamo dormire. Ma chi ci riusciva a dormire in quel casino. Tutto puzzava e non potevamo neanche aprire bocca. Se chiedevi qualcosa ti dicevano “domani, domani”. Poi è successa una cosa che mi hanno detto si chiama convalida: mi chiamano, uno dice di essere il mio avvocato ma non lo avevo mai visto, un poliziotto parla, l’avvocato si è guardato col poliziotto e gli ha fatto segno di sì con la testa. L’interprete mi ha detto che ero trattenuto.

Un giorno una ventina di noi si sono incazzati e siamo saliti sul tetto. Volevamo andarcene, preferivamo la galera. Sono entrati i poliziotti e le guardie in grigio (i finanzieri), prima ci hanno fatto scendere con le buone, poi ci hanno manganellato a freddo. Non dormivo e ho accettato i consigli degli amici, mi facevo dare delle gocce per riposare, ma l’effetto era che la notte guardavo il soffitto e di giorno non mi tenevo in piedi. Ogni tanto qualcuno provava ad ammazzarsi o a tagliarsi e allora scoppiava il casino. Io pensavo, sono matti a fare così! Poi una notte mi è presa male, avevo telefonato a mia madre che era scoppiata a piangere; poi mi hanno passato mio fratello che mi ha urlato di non farmi più vedere a casa. E allora ho giocato la mia sola carta. Ho ingoiato 2 batterie e mi sono sentito male. Non volevano farmi uscire perché non mi credevano e quindi ho telefonato ad amici con cui ero in contatto. Italiani che erano più incazzati di noi. Bravi ragazzi. Ho urlato che stavo male e sono riusciti a fare intervenire i poliziotti che si sono spaventati. Dopo un’ora ero in ospedale; poco dopo mi hanno fatto la lavanda gastrica. Mi sono risvegliato presto in un letto e stavo meglio. Ero debole ma stavo meglio. Avevo ancora dei vestiti ma con le ciabatte. Ho rubato delle scarpe ad un altro che dormiva in un letto vicino e sono uscito via. Sono scappato senza guardare indietro».

Ghazim si guarda intorno e ogni volta che vede una divisa ha un sussulto impercettibile, ma dovrà resistere ancora poche ore. «Mi devono dare ancora 500 euro, poi lascio questo paese e lascio questa Europa di merda – dice con aria dura – Arrivo in treno fino a Ventimiglia e poi faccio il viaggio in senso opposto. Se riesco a non farmi beccare, fra una settimana sono a casa. I miei mi malediranno, ma a tanti ragazzi voglio dire: “guardate che l’Europa fa schifo e che qui non c’è futuro”. Prima o poi sarete voi a emigrare da noi e allora voglio stare dall’altra parte».

Stefano Galieni