Caporalato agricolo

Vite da sikh

- 30 Giugno 2013

Cambiare le regole dell’agricoltura: la lotta al caporalato passa anche di qui. Un nuovo dossier sui migranti sfruttati nei campi. Focus sui sikh dell’Agro Pontino.

Sfruttamento, caporalato, lavoro nero, ultraprecarietà, coabitazione coatta, scarso accesso alla sanità pubblica. Sono i principali elementi rilevati dal monitoraggio sulle condizioni di vita dei braccianti immigrati, condotto dall’associazione Action – Diritti in movimento e realizzato con il contributo della Provincia di Roma.
Il quadro che è emerso è obiettivamente inquietante: non contiene novità stravolgenti, ma conferma quello che da troppo tempo siamo abituati a sapere. Ed è una prova che, nonostante i nuovi strumenti disponibili (la cosiddetta legge Rosarno, per esempio), la situazione sembra inamovibile. Che si tratti di Rosarno, della Piana di Sibari, di Palazzo San Gervasio, di Caserta, Latina o del sud di Roma, di migranti tunisini, rumeni, senegalesi, indiani, bengalesi non importa. Sono braccia e sudore da sfruttare per caporali e pseudo-imprenditori senza scrupoli. Corriere Immigrazione più volte si è occupato di questo tema, anche con riferimento alla comunità sikh denunciando, come anche da dossier dell’associazione In Migrazione, condizioni di sfruttamento, caporalato e segregazione sociale di migliaia di migranti indiani impiegati come braccianti nelle polverose campagne pontine, come anche degli orgogliosi tentativi di riscatto sociale che molti di loro hanno tentato, accompagnati da associazioni e sindacati (Legambiente, Flai-cgil, Amnesty International).

I sikh dell’Agro Pontino Il dossier di Action conferma, dunque, le condizioni già analizzate e denunciate per i migranti sikh pontini. I risultati della ricerca denunciano l’arrivo dei migranti sikh, di fatto, attraverso un visto turistico o per lavoro stagionale, come essi usufruiscano delle quote flussi, restando a volte in Italia come irregolari in attesa di un provvedimento di emersione e convivano con un membro della propria famiglia in attesa di poter godere di un ricongiungimento. Impiegati per la maggioranza come braccianti, spesso hanno vissuto o continuano a vivere condizioni di impiego irregolare, guadagnano 3-5 euro l’ora per 7-8 ore di lavoro al giorno, lavorando generalmente per 2-3 giorni alla settimana, costretti a pagare una tangente al caporale che può arrivare anche a dieci euro al giorno. Le stesse condizioni abitative mettono in evidenza un cronico disagio sociale che colpisce la comunità nella sua generalità. I contratti d’affitto sono generalmente irregolari, le abitazioni fatiscenti, il sovraffollamento condizione diffusa. Secondo Action, per ogni abitazione ci sono circa tre famiglie sikh, ognuna della quali costretta a vivere in una stanza, condividendo con le famiglie coinquiline servizi e cucina e pagando un affitto di circa cento euro. L’accesso alla sanità sarebbe impedito dalla scarsa conoscenza dei propri diritti, mentre per quanto riguarda l’istruzione si registra una confortevole presenza delle seconde generazioni, impegnate in un percorso di formazione scolastica che può rappresentare la via attraverso la quale rompere il circuito perverso di sfruttamento e segregazione sociale. I membri più anziani della comunità, invece, risultano privi di un’adeguato livello di scolarizzazione, che sommato alla conoscenza imperfetta della lingua italiana, li espone maggiormente al rischio soprusi e segregazione lavorativa.

Cambiare l’agricoltura La riflessione che ha fatto seguito alla presentazione dei dati del dossier ha visto il susseguirsi di interventi di associazioni, sindacalisti e autorità istituzionali. Massimiliano Smeriglio, vice presidente della Regione Lazio, ha evidenziato la necessità di cancellare presto il reato di clandestinità e ha dichiarato la volontà di promuovere una legge regionale contro lo sfruttamento e il caporalato, più avanzata e incisiva di quella nazionale. Ma soprattutto Smeriglio ha proposto una riforma agraria volta a riqualificare, anche sul piano produttivo, i circa 300 mila ettari di terreno pubblico regionale, quasi tutti abbandonati, da mettere a disposizione di cooperative, gruppi, comitati: venendo a dare un’opportunità concreta a chi cerca di fare un’altra agricoltura. Infine, ha proposto la creazione di un marchio di sostenibilità sociale da utilizzare in agricoltura, per arginare il fenomeno delle imprese che, pur coltivando in modo ecosostenibile e a volte addirittura biologico, sfruttano manodopera migrante, speculando sui loro bisogni e diritti. Le conclusioni del convegno sono invece spettate alla ministra dell’Integrazione Cécile Kyenge, che ha ricordato il suo impegno di attivista per i diritti umani e dei migranti, antecedente al suo ingresso in Parlamento, e proposto una commissione conoscitiva sul fenomeno dei migranti e del loro sfruttamento, in collaborazione con ministero delle politiche agricole e forestali.

Un parterre dunque qualificato (erano presenti anche il prefetto Umberto Postiglione, commissario della Provincia di Roma, Marco Miccoli, parlamentare del Pd e membro della Commissione parlamentare Lavoro, Roberta Turri, segretaria nazionale Fiom Cgil, e Giovanna Cavallo di Action – Diritti in Movimento) per un dossier interessante. La buona volontà e le proposte messe in campo adesso però vanno sostanziate con atti, provvedimenti, direttive, circolari, impegni formali e reali, che superino la stagione degli slogan e delle promesse diffuse.

Marco Omizzolo