Fantadialogo

Il poliziotto, il militante e i Cie

- 30 Giugno 2013

Dialogo immaginario, basato su voci reali raccolte da Medu nel corso della realizzazione di Arcipelago Cie.

Poliziotto: La prego si accomodi. Chieda pure. Di quali informazioni ha bisogno? Sono diversi anni che lavoro per l’ufficio immigrazione della Questura in questo centro di identificazione ed espulsione, che tra l’altro è uno dei più grandi d’Italia. Questo mese di associazioni per i diritti umani, di parlamentari, giornalisti, medici ne ho visti passare parecchi dal centro e… me lo lasci dire… con loro anche un bel po’ di ideologia. Siamo, come si dice, sotto i riflettori.
Militante: Bene la ringrazio. Allora potremo visitare tutto il centro, comprese le aree di trattenimento?
Poliziotto: Nelle aree dove si trovano gli ospiti non è possibile entrare per ragioni di sicurezza. Da quando hanno aumentato i tempi di trattenimento a un anno e mezzo la tensione è aumentata ancora. E noi ci troviamo a lavorare in una polveriera pronta ed esplodere. Per darle un’idea, lo scorso mese, una rivolta con tentativo di fuga degli ospiti ha provocato centomila euro di danni! Sono andati a fuoco due interi settori.
Militante: Certo converrà con me che le concretissime sofferenze degli stranieri trattenuti nei Cie riguardino ben poco l’ideologia! Più che a dei centri di accoglienza questi luoghi assomigliano a dei campi di internamento. Spazi ristretti delimitati da sbarre e filo spinato, alloggi e servizi igienici spesso fatiscenti, a volte mancano anche le cose e i servizi più essenziali: riscaldamento, carta igienica, biancheria. I migranti che abbiamo incontrato ci raccontano che passano le loro giornate senza poter svolgere alcuna attività se non fumare sigarette in modo compulsivo. In alcuni centri addirittura è loro vietato di possedere pettini, libri, penne, giornali… tutto questo per motivi di sicurezza. Lo sa che alcune donne cinesi resistono a questo ozio coatto e devastante, producendo borse con lenzuola, forchette di plastica e i loro indumenti intimi? Non le sembra improprio chiamare ospiti delle persone ristrette in condizioni così degradanti? In un centro addirittura i trattenuti erano costretti a farsi la barba in una gabbia! Certo, la motivazione era sempre quella della sicurezza, per evitare che con le lamette gli internati potessero compiere atti disperati: provocarsi ferite multiple oppure ingoiarle. Ma posti del genere non possono che generare violenza. Su se stessi, sugli altri, sulle cose.
Poliziotto: Guardi che noi abbiamo grosse difficoltà a mantenere l’ordine pubblico. Questo è un lavoro ingrato! E dello stress dei miei uomini, costantemente sotto organico, chi se ne occupa? Tenga conto che molte delle persone che finiscono qui dentro non sono certo delle “educande”. Molti provengono direttamente dal carcere e l’orientamento della Questura è proprio quello di dare priorità al trattenimento di quegli stranieri che hanno precedenti penali.
Militante: Mi è capitato di visitare un certo numero di Cie prima di questo e non ho incontrato solo ex-carcerati. Le posso fare un lungo elenco: migranti appena giunti in Italia, richiedenti asilo, cittadini dell’Unione europea – tantissimi romeni ho incontrato! –, stranieri che vivono da anni in Italia, spesso con famiglia, ma senza un contratto di lavoro regolare, immigrati con il permesso di soggiorno scaduto, donne vittime di tratta, persone con gravi malattie fisiche e psichiche, giovani e anziani senza dimora. Un universo di emarginazione e sofferenza che sono sicuro lei conosce meglio di me. E poi gli ex-detenuti. Non le pare una misura di buon senso procedere all’identificazione di queste persone mentre sono ancora in carcere invece che trasportarle – come si fa adesso – dalla galera al Cie facendo loro scontare quella che di fatto è una doppia pena?
Poliziotto: E va bene, aboliamo i Cie. Lei ha delle proposte alternative? Io un’idea ce l’avrei. Facciamo una lista a livello nazionale. Tutti quelli che la firmano si impegnano a portarsi a casa un immigrato illegale. Si impegnano a dargli vitto e alloggio; cure mediche se necessarie; una macchina per gli spostamenti e una diaria per le spese, chiaramente fino a che non trovi un lavoro, in bianco, non in nero. Che dice? Lei firma? Certo che ci sono i diritti degli stranieri che voi difendete, ma i diritti sono di tutti come lei mi insegna. Ci sono anche i diritti dei cittadini italiani, il diritto alla sicurezza! Se uno straniero non è riconoscibile perché non ha i documenti è ovvio che deve essere tenuto in un posto tutelato, sicuro, per scoprire chi è, chi non è, e poi rimandarlo nel paese di origine. I Cie non saranno alberghi a cinque stelle, ma sono necessari.
Militante: Dunque secondo lei i Cie, pur non essendo dei posti “piacevoli”, sono comunque necessari per combattere l’immigrazione clandestina in questo mondo “grande e terribile”. Chi vuole abolirli è una sorta di “anima bella” che non si pone il problema delle conseguenze. Ma è cosi sicuro che questi centri siano realmente uno strumento efficace per questo scopo e non invece un’arma spuntata “venduta” all’opinione pubblica come “la soluzione”? Lei pensa che in quindici anni – perché i Cie ci sono dal 1998! – i cittadini abbiano avuto la possibilità di farsi un’idea del reale significato di questi luoghi di privazione della libertà?
Poliziotto: Non saranno la soluzione perfetta ma in parte funzionano. Servono anche a scoraggiare nuovi arrivi di irregolari. Pensi se si sapesse che in Italia hanno abolito i Cie… il giorno dopo diventeremmo il bengodi dei “clandestini”! Poi si sa che le migrazioni in questo mondo “grande e terribile”, come dice lei, non si possono arrestare e la povertà va dove c’è la ricchezza, o almeno dove si pensa che ci sia.
Militante: Ma lei sa meglio di me che ogni anno attraverso i Cie si stima venga rimpatriato solo un centesimo dei migranti irregolari che sono presenti in Italia. Ed è così da quindici anni! Aver prolungato di diciotto volte il tempo massimo di detenzione, dai trenta giorni iniziali agli attuali diciotto mesi, non ha sortito alcun significativo miglioramento in termini di efficacia delle espulsioni. Le sembra questo un sistema – non dico umano – ma razionale? Avere dei luoghi nel nostro paese che sono dei “buchi neri” della dignità e dei diritti umani per dei risultati così scarsi e irrilevanti? Luoghi che producono al loro interno violenza e tensione, istituzioni che, di fatto, trasformano in criminali uomini e donne che hanno il solo torto di migrare per cercare di fuggire dalla miseria o addirittura per salvaguardare la loro stessa vita. Strutture che paradossalmente accrescono paura e insicurezza nell’opinione pubblica. Per non parlare dei costi materiali a carico dello Stato per mantenere questo ingranaggio iniquo e inefficiente! Francamente questo modo di agire mi ricorda quei medici del Medioevo che pretendevano di curare le malattie applicando salassi di sanguisughe ai malcapitati pazienti. Il metodo era sicuramente impressionante, ma i risultati nulli o controproducenti.
Poliziotto: Certo, il prolungamento dei tempi di trattenimento ha creato grossi problemi a tutti; non lo deve dire a me! La tensione è aumentata parecchio, gli animi si sono surriscaldati, gli operatori del centro hanno grossi problemi di gestione; anche loro sono parecchio sotto pressione.
Militante: E secondo lei c’è stato almeno un miglioramento nell’efficacia delle espulsioni? Perché questo è lo scopo dichiarato del prolungamento dei tempi di detenzione.
Poliziotto: Ma no! Tenga conto che se l’identificazione dello straniero non avviene nei primi tre, massimo, quattro mesi, è poi quasi impossibile che avvenga in seguito.
Militante: Allora è d’accordo con me che questo sistema obbedisce a una logica irrazionale e spesso crudele! Che senso ha prevedere tempi di detenzione di diciotto mesi, far scontare una doppia pena – percepita ovviamente come una ingiustizia – agli ex-detenuti senza identificarli prima in carcere, trattenere donne vittime di tratta, cittadini europei, persone a volte fragilissime, malati anche gravi… Mi ricordo che in un Cie abbiamo seguito il caso di un giovane con una forma grave di depressione, che aveva già compiuto due tentativi di suicidio. Nonostante gli psichiatri del Dipartimento di salute mentale ne chiedessero l’immediato rilascio e nonostante ogni regola di buon senso – ancor prima che di umanità – quest’uomo è stato trattenuto per quattordici mesi, quando era ormai chiarissimo che non si sarebbe potuto in alcun modo procedere alla sua identificazione! Ma mi lasci dire che c’è qualcosa di ancora più grave che riguarda la tutela della salute nei Cie. In questi luoghi di privazione della libertà anche la relazione tra medico e paziente viene distorta in modo “patologico”, se così si può dire. Il migrante malato è sempre il custodito e, troppo spesso, il medico del Cie diventa uno dei suoi custodi. Vengono così meno il fondamentale rapporto di fiducia e la libera comunicazione tra curante e paziente, senza i quali qualsiasi percorso di cura è destinato al fallimento.
Poliziotto: In quello che dice c’è del vero, ma si ricordi che i Cie ce li chiede l’Europa. Non mi vorrà dire che tutti gli altri Paesi europei sono antidemocratici perché i centri ci sono in Germania, Francia, Inghilterra, Spagna e così via e da molto tempo prima che da noi.
Militante: Certo questo è un problema europeo ed è vero che c’è una specifica direttiva, la cosiddetta “Direttiva rimpatri” che prevede il trattenimento dello straniero ai fini del suo rimpatrio. Ma questa famosa direttiva dice anche chiaramente che questa forma di detenzione deve essere adottata solo in ultima istanza, come extrema ratio, qualora non sia possibile applicare altre misure meno drastiche e coercitive. In Italia invece avviene esattamente il contrario; la detenzione nei Cie è la norma ed altre misure, come ad esempio il rimpatrio volontario assistito, sono l’eccezione. Non crede che basterebbe applicare davvero lo spirito della direttiva europea – e non solo la forma – per iniziare a fare a meno dei Cie nel nostro Paese? E non le pare che sarebbe sensato prevedere l’identificazione in carcere nel caso dei detenuti stranieri irregolari e l’attuazione di percorsi di protezione per quei migranti vulnerabili di cui abbiamo parlato prima e che attualmente si trovano segregati nei Cie? Le sembrano queste proposte fuori dalla realtà?
Poliziotto: Guardi, la realtà mi sembra che in quindici anni, con governi di destra e di sinistra, i Cie siano aumentati e i tempi di trattenimento anche. Ormai fanno parte, per così dire, del “paesaggio” dell’Italia e dell’Europa.
Militante: Eppure il Cie sembra essere sempre di più un “inferno degli esclusi” come lo era un tempo il manicomio; un luogo fisico e simbolico dove segregare coloro che per varie ragioni l’Autorità ritiene debbano essere posti al di fuori della società dei cittadini. Anche i manicomi, del resto, erano considerati imprescindibili per la società, un elemento non mutabile del “paesaggio”. Eppure l’Italia ha saputo superarli segnando un cammino di progresso civile. A questo proposito le voglio raccontare una storia. Durante la seconda guerra mondiale la città di Ancona subì un duro bombardamento che distrusse in parte anche il locale manicomio. I “matti” sopravvissuti fuggirono e di loro non si seppe più nulla fino alla fine della guerra, quando si scoprì che la maggior parte di loro si era perfettamente integrata nel territorio; chi aveva trovato un lavoro, chi una famiglia. Ecco, se per ipotesi oggi un terremoto distruggesse tutti e tredici i Cie italiani, sono convinto che sparirebbe uno scempio dal “paesaggio” della nostra convivenza civile senza arrecare alcun danno alla collettività. In definitiva, tutte le evidenze dimostrano che i Cie sono non solo inumani e costosi, ma anche inefficaci! Il giorno che potremo scrivere la loro epigrafe questa non sarà identificare ed espellere, quanto piuttosto sorvegliare e punire.
Poliziotto: Queste sono le sue conclusioni. Adesso però la devo lasciare perché alcuni ospiti sono saliti sul tetto. Protestano perché con l’arrivo dell’inverno alcune camerate hanno i riscaldamenti danneggiati e loro hanno l’obbligo di portare solo ciabatte… per motivi di sicurezza… lo ha deciso la Prefettura.

Alberto Barbieri, Coordinatore generale di Medici per i Diritti Umani