Donne G2 e politica

Seconde a chi?

- 30 Giugno 2013

Non è solo una provocazione. È il rovesciamento di un doppio stigma. Presentato il progetto Giovani donne di seconda generazione tra cittadinanza e politica. 

Nello stesso giorno in cui a Palazzo Giustiniani si proponeva l’istituzione di una commissione bicamerale sul femminicidio, nella sala dedicata ai caduti di Nassiriya si è presentato un progetto che vede le donne oggetto e soggetto di pratiche politiche radicalmente nuove.
Seconde a chi? non è solo una provocazione. È il rovesciamento di un doppio stigma. Quello di donna e di migrante. «E di giovane», aggiunge Samia Oursana del Forum Immigrazione del Pd e parte attiva del progetto. Guardare alle giovani donne migranti o di seconda generazione non come una categoria protetta ma come una risorsa per lo sviluppo economico e soprattutto culturale e politico del Paese è la chiave per ridare senso alla parola cittadinanza attiva.
Sia i giovani arrivati in Italia in età prescolare, sia i cosiddetti stranieri nati in Italia costituiscono, già adesso, una preziosa risorsa per il Paese. Sono studenti, atleti, lavoratori, ricercatori. Ma non godono di nessun tipo di riconoscimento legale e culturale. Come ben ha sintetizzato Oursana, «è ancora difficile per molti dare del dottore o dell’avvocato ad una persona con tratti somatici insoliti». Partire da questo gesto quotidiano sarebbe già un primo passo per dare un senso multiculturale e inclusivo al termine cittadino.
Parlare di quotidianità in politica, soprattutto in aula del Senato, non è mai un atto naturale. Lo si fa sempre con un certo pudore e un velo di ritrosia. Eppure la sfida di questo progetto è proprio quella di aprire le porte dei palazzi alle «piccole cose dell’esistenza», come le chiamava Nilde Iotti, la quale invitava «uomini politici, ministri, economisti, amministratori locali a fare finalmente i conti con la vita concreta della donne». E oggi si sono scelte le giovani donne di seconda generazione.
Non è quindi un caso che la coordinatrice nazionale di Sel, Elettra Deiana, abbia parlato proprio di «deprimente quotidianità» raccontando le storie di bambine e adolescenti “italiani ma non abbastanza”. Come la bambina padovana promessa del nuoto, ma figlia di genitori tunisini, e per questo bloccata a bordo vasca (è il caso di dirlo) dalla Federazione di Nuoto che le ha impedito la partecipazione alle gare federali in quanto straniera. Ma è solo uno degli innumerevoli casi di talenti sprecati e ordinaria frustrazione.
Il progetto More women in european politics (Più donne nella politica europea), promosso dall’Associazione Luden insieme con la Commissione sui Diritti Fondamentali dell’Ue, è stato accolto in Italia dal gruppo parlamentare di Sel e da un nutrito gruppo di donne aventi «differenti origini culturali e geografiche», spiega la coordinatrice del progetto Giorgia Bordoni. Lo scopo è aprire uno spazio di riflessione pubblica sulla partecipazione delle giovani donne di seconda generazione alla leadership nazionale ed europea.
Non la politica che si occupa delle donne, ma le donne che si occupano di politica. Il progetto prevede, inoltre, una scadenza ben precisa: le elezioni europee del 2014. Questo dettaglio non si limita ad ottimizzare i tempi e a garantire operatività (che già è tanto e decisamente insolito), ma si spinge fino a riconsiderare la questione di genere dall’integrazione delle mamme di figli stranieri – così come voleva la Turco-Napolitano – alla valorizzazione delle professionalità e delle competenze. Nulla di più urgente in un Paese che vive di eterne potenzialità, dei giovani e delle giovani in particolare.
Passo obbligato è la modifica della legge 91/1992 sullo “straniero nato in Italia”. Isabella Perretti ha ricordato che la fortunata campagna L’Italia sono anch’io ha formulato una proposta legislativa efficace e completa per la quale è sufficiente essere nati in Italia (il famigerato ius soli) o aver concluso un ciclo scolastico, essere sposati con un autoctono o poter certificare cinque anni di residenza, contrariamente agli attuali dieci che le lungaggini burocratiche rendono spesso quindici.
La deputata Sel Celeste Costantino ha invece sottolineato come «parlare di ius soli apra un varco per articolare tutto l’impianto politico e legislativo sulla questione dei rifugiati, degli sbarchi, del riconoscimento, dei Cie, del lavoro, del permesso di soggiorno…». Un impianto ancora fortemente impregnato di xenofobia leghista, nonostante il Carroccio stia tentando con goffaggine la strada del politically correct.
La semplificazione burocratica non è comunque sufficiente senza una politica lungimirante. Spesso le buone pratiche arrivano a rimorchio della cronaca e sono incapaci di antipare i tempi. Questo è quanto ha sostenuto la ministra Cécile Kyenge trovando la condivisione di tutta l’aula. D’altronde lo spirito del progetto è proprio spostare l’attenzione dall’emergenza al lungo periodo, sia per quanto riguarda le questioni di genere che per quel che concerne le politiche sulla migrazione.
Il lavoro prevede inoltre progetti educativi coordinati da alcune artiste e speaker radiofoniche. A riprova di quanto detto finora sulla centralità dello snellimento legislativo, il laboratorio Passamondo muove proprio dalla necessità di dare senso e carne al disagio del riconoscimento formale – quello del passaporto così come del permesso di soggiorno – e far luce su quel diritto poco combattuto che è quello all’identità e al riconoscimento di sé.
Se si parla di identità e rappresentanza, non si può non parlare di auto narrazione. È così che la chiama l’artista visuale Rosa Jijon. «Gli stranieri sono sempre intervistati. È difficile che sia riconosciuto loro il diritto alla voce, alla narrazione autonoma di sé. Chi meglio di te stesso è in grado di narrarti con fedeltà assoluta?». Sarà per questo che nel progetto non mancano le interviste e le auto interviste, così come la mappatura del più diffuso diario di bordo per le nuove generazioni: il blog.
A margine della conferenza stampa, qualche utile riflessione sulla “riforma della grammatica”. Poiché anche le parole sono importanti, e molto della politica si muove su questo crinale, rovesciare il concetto di integrazione (l’Altro che si assimila a Me) non può prescindere dall’abbandono della più innocua locuzione di ius soli: nato sotto il Mio stesso sole. «E perché mai – si è chiesta Isabella Perrotti – un bambino venuto in Italia dal Nord Africa a tre anni dovrebbe essere meno italiano di chi ha vissuto i suoi primi annebbiati giorni di vita in un ospedale italiano? Perché parlare di ius soli? Non sono meglio tanti soli?».

Noemi De Simone