Dura lex

Ingresso a ostacoli

- 7 Luglio 2013

Lavoratori migrantiUn nuovo decreto per complicare ancora di più  l’entrata in Italia. Ma che si presenta come un’opzione favorevole per gli italiani.

Immaginate la scena. Aprite un giornale, o vi collegate a un sito web, e leggete una notizia del genere: «Nuovo decreto-legge, l’accertamento di indisponibilità dovrà essere richiesto prima di inoltrare la domanda di nulla-osta». Come reagite? Forse siete capitati in una di quelle sezioni per “addetti ai lavori”, tipo la pagina finanziaria di un giornale specializzato. Roba da avvocati e commercialisti: poco interessante, e incomprensibile per i comuni mortali. Nessun problema: girate pagina e andate avanti.

E invece in questo caso vi invitiamo a tenerla aperta, quella pagina. Anche se è scritta in termini gergali e un po’ astrusi: perché a volte proprio notizie di questo genere sono importanti, e hanno a che fare con la vita di tutti i giorni. Un po’ come lo “spread”, che nessuno sapeva bene che bestia era, finché non si è scoperto che decideva delle nostre pensioni e dei nostri salari.

Allora prendiamo fiato, fermiamoci un attimo e guardiamo in faccia quest’altra bestia: cominciando da quella strana sequenza di parole, “accertamento di indisponibilità”.

Prima gli italiani: il cosiddetto “accertamento di indisponibilità”
In effetti, “accertamento di indisponibilità” è proprio un’espressione difficile, in grado di scoraggiare il più volenteroso dei lettori. Ma basta tradurla nel linguaggio quotidiano per capire che si tratta di una cosa semplicissima. Già, perché quelle tre parolette astruse servono ad esprimere in “burocratese” un concetto che conosciamo tutti, e che ascoltiamo ogni giorno nelle conversazioni da bar: vuol dire, grosso modo, “prima gli italiani”.

Quando, nel 2002, l’allora Governo Berlusconi varò la sua legge sull’immigrazione (la cosiddetta “Bossi-Fini”), decise di introdurre un criterio di priorità: prima di assumere uno straniero chiamandolo dall’estero, i datori di lavoro avrebbero dovuto verificare la disponibilità di manodopera italiana (o comunitaria). E i lavoratori “autoctoni”, o comunque europei, avrebbero avuto la precedenza sui “forestieri” in arrivo da altri continenti.

Ecco, questa è già di per sé una notizia interessante, che pare sia sfuggita, per esempio, ai politici della Lega Nord: Matteo Salvini, solo per dirne uno, ha chiesto qualche mese fa di «dare la precedenza agli italiani» nell’assegnazione dei posti di lavoro. Nessuno gli ha spiegato che la sua proposta è legge dello Stato da più di dieci anni. E se questa legge non ha risolto il problema dell’occupazione, neanche per gli italiani, un motivo ci sarà pure.

Principi rigidi, applicazioni creative
Ma non divaghiamo, e torniamo al nostro “accertamento di indisponibilità”. La Bossi-Fini aveva introdotto il principio, ma passare alla realizzazione pratica era una faccenda un po’ più complessa. Intanto perché l’Italia ha firmato la Convenzione n. 143 dell’Oil (l’Organizzazione Internazionale del Lavoro), che stabilisce il diritto alla parità di trattamento tra i lavoratori: in base a questa norma un lavoratore immigrato, se regolarmente soggiornante, ha diritto ad essere trattato nello stesso modo dei suoi colleghi “autoctoni”.

Per aggirare questo ostacolo, la Bossi-Fini aveva previsto l’accertamento di indisponibilità solo nel caso di un nuovo ingresso dall’estero: quando invece si trattava di assumere stranieri già presenti in Italia, non valeva il “diritto di precedenza” per gli italiani (o per i comunitari). In pratica, il principio doveva essere applicato solo ai “decreti flussi”, cioè ai provvedimenti che disciplinavano (e disciplinano tuttora) le quote annuali di ingresso di lavoratori stranieri ancora residenti all’estero.

Non solo. Per mettere d’accordo la normativa italiana con la famosa Convenzione Oil, i tecnici del Ministero decisero di introdurre una modifica significativa: se nella Bossi-Fini si stabiliva il principio prima gli italiani (o comunitari), poi gli stranieri, nel Regolamento di Attuazione questo “diritto di precedenza” fu esteso anche agli immigrati regolarmente soggiornanti. Il criterio diventò dunque prima i lavoratori già presenti in Italia, poi quelli che devono entrarvi.

Un, due, tre, stella…
C’era però un altro problema, più difficile da aggirare. Quando fu approvata la Bossi-Fini, il mercato del lavoro era stato liberalizzato, e le vecchie liste di collocamento obbligatorio erano state abolite da un pezzo. Imporre a un’azienda di assumere un lavoratore al posto di un’altra puzzava troppo di “comunismo”, e in ogni caso faceva a pugni con le norme sul collocamento.

A risolvere il problema ci hanno pensato ancora una volta i tecnici del Ministero degli Interni: che nella stesura del “Regolamento di Attuazione” hanno, per così dire, salvato il principio, rendendone più flessibile l’applicazione pratica.

Le cose, fino ad ora, hanno funzionato così. Esce il “decreto flussi”, che stabilisce quanti lavoratori stranieri possono entrare in Italia in un dato anno. La ditta X chiede l’ingresso di Tizio, che abita (poniamo) in Senegal, per poterlo assumere come manovale. A questo punto il Centro per l’Impiego pubblica sul proprio sito internet l’offerta di lavoro: la ditta X cerca un manovale, c’è qualcuno interessato? Se non si fa avanti nessun lavoratore già presente sul territorio nazionale, Tizio può entrare in Italia. Nel caso improbabile che qualcuno si proponga al posto del senegalese, il datore di lavoro è chiamato a scegliere: può prendere il nuovo candidato, oppure può confermare l’assunzione di Tizio.

Come è facile intuire, nessuno si è mai fatto avanti per chiedere di essere assunto. E questa tortuosa procedura si è tradotta solo in un allungamento dei tempi burocratici: il datore di lavoro deve aspettare per venti giorni l’eventuale (e improbabile) candidatura di un altro lavoratore. In quei venti giorni di solito non succede niente, ma intanto la procedura è più lunga, e i tempi si dilatano.

Sergio Briguglio, esperto romano di immigrazione, in un articolo pubblicato sul suo blog ci scherza sopra: «Si è trattato, in pratica, di un semplice appesantimento burocratico, che avrebbe potuto essere rimpiazzato, senza alterazione della sostanza, da un torneo di un-due-tre-stella da parte dei funzionari del Centro per l’impiego»

Il nuovo decreto
E qui veniamo al nuovo decreto: quello che, scritto in termini tecnici, rischiava di passare inosservato. Adesso, finalmente, siamo in grado di capirci qualcosa.
Il decreto, come abbiamo visto, stabilisce che l’accertamento di indisponibilità debba essere fatto prima di inoltrare la domanda di assunzione. Quindi il datore di lavoro dovrebbe andare al Centro per l’Impiego, verificare l’indisponibilità di lavoratori già presenti in Italia, e solo dopo chiedere alla Prefettura l’ingresso di uno straniero dall’estero.

Cosa cambia? Apparentemente nulla. Sembra solo una piccola modifica nell’ordine di priorità: se in precedenza il primo passo da fare era la richiesta alla Prefettura, ora bisogna cominciare dal Centro per l’Impiego. Alle elementari ci insegnavano che, cambiando l’ordine degli addendi, il risultato non cambia: due più tre fa cinque, ma anche tre più due fa cinque, giusto?

Però qui non siamo alle elementari. E le cose sono un po’ più complesse. Perché il decreto obbliga a riscrivere tutta la procedura, e dunque a cambiare il famoso Regolamento di Attuazione: quello che aveva autorizzato i datori di lavoro a confermare comunque l’assunzione degli stranieri richiesti. Il rischio è che, nel riscrivere il Regolamento, la “priorità agli italiani” (o agli stranieri già in Italia) diventi un principio più stringente. Oppure che si creino ulteriori appesantimenti burocratici, in una procedura che già oggi è lunga, complessa e astrusa.

Del resto, non dobbiamo dimenticare a cosa servono i “decreti flussi”: nessuno ha mai creduto alla favoletta del datore di lavoro che assume un operaio straniero, chiamandolo mentre si trova ancora al suo paese, a migliaia di chilometri di distanza. Tutti sanno che le quote sono state utilizzate finora per regolarizzare migranti che si trovavano già in Italia.

Per uno di quegli strani paradossi della normativa, infatti, lo straniero irregolare non può ottenere nessun documento di soggiorno, nemmeno se dimostra di avere un lavoro. Così, negli anni, chi ha cercato di mettersi in regola ha dovuto “fingere” di non essere qui: si è fatto “chiamare” dal datore di lavoro, è tornato al suo paese, ha preso il visto ed è rientrato di nuovo, stavolta da regolare. Le “quote” hanno rappresentato cioè altrettante “sanatorie”, camuffate da ingressi dall’estero: un sistema bizantino e ipocrita, che però ha garantito una qualche forma di emersione agli irregolari.

Ora, con il nuovo decreto, il rischio concreto è che anche questo meccanismo si inceppi. E che i datori di lavoro siano scoraggiati dal presentare le domande: lasciando che i loro dipendenti continuino ad essere impiegati al nero. Staremo a vedere.

Sergio Bontempelli