Rivoluzioni arabe

La verità e la riconciliazione

- 7 Luglio 2013

Lo stupro come arma di guerra, utilizzato durante le repressioni, è ferita aperta per intere società, sospese fra bisogno di verità e di oblio.

Quando la donna interamente coperta da un pesante niqab nero, non per motivi religiosi ma di sicurezza, ha iniziato a raccontare la propria storia, il silenzio nella Sala del Mappamondo, alla Camera dei Deputati, è diventato palpabile come la sofferenza. Anche la voce dell’interprete era rotta dalla sofferenza nell’indicare le torture subite, le violenze e la vergogna, il senso di colpa e il tentativo di rompere con un dogma. Era una studentessa, all’epoca già sposata, che partecipò sin dall’inizio alla rivolta contro il regime libico di Gheddafi, si espose pubblicamente come cittadina. Venne tradita e rapita, finì in un carcere clandestino dove le torture di ogni tipo erano la norma. Con lei altre 2 ragazze di cui non si è più avuta notizia.

Nell’incontro che è stato aperto dalla presidente della Camera Laura Boldrini, il filo conduttore che ha traghettato nei percorsi bui delle repressioni e delle atrocità, era da ricercarsi nella speranza di mettere finalmente insieme il bisogno di verità e quello di giustizia. Soprattutto dopo una notizia arrivata dalla Libia, e di portata storica: il Vice Presidente del Congresso generale nazionale, Juma Ahmad Atigha, aveva appena comunicato che un disegno di legge presentato stava per essere approvato nel parlamento libico. In questa fase di “giustizia transazionale”, gli stupri avvenuti durante il regime e nel conflitto saranno considerati, in un testo composto di 9 articoli, come crimini di guerra e in quanto tale perseguiti. Coloro che denunceranno i soprusi subiti avranno diritto non solo ad un risarcimento ma a vedere condannati i propri aguzzini. Non sarà facile avere testimonianze comprovate in un contesto dove la donna che ha subito violenza è considerata responsabile e in quanto donna colpevole. Non sarà facile superare l’ostilità di famiglie e comunità, il senso di vergogna sociale a cui chi ha subito tale delitto viene esposto, ma è un passo importante. Come giustamente ha affermato Laura Boldrini, ripresa dagli interventi che si sono susseguiti, è soltanto dando la parola, facendo emergere la verità che si potranno superare i conflitti e ricominciare a costruire.

Ad organizzare il dibattito moderato dalla giornalista Lucia Goracci è stato il presidente della Commissione Cultura dell’Assemblea Parlamentare per l’Unione del Mediterraneo, nonché deputato italiano Khalid Chaouki, grazie al lavoro portato avanti dalla Ara Pacis Iniziative e all’Observatory for Gender in Crisis. Nel corso delle rivolte che hanno mutato e stanno mutando tutt’ora il volto delle sponde sud del Mediterraneo, il ricorso alla violenza sessuale contro donne, uomini e bambini è stata una costante così come quello dell’uso della tortura atta ad annientare non solo fisicamente, ma soprattutto psicologicamente la dignità e la vita di chi la subiva. La giornalista di Le Mond Annick Cojean, autrice del durissimo volume Nell’harem di Gheddafi, ha raccontato come a partire dalla testimonianza di una ragazzina rapita a 15 anni e sottoposta ad ogni brutalità, si sia riusciti a ricostruire un macrocosmo nascosto e inaccettabile che ha accompagnato gli anni del regime libico. Ma quello che dettagliatamente è stato raccontato rispetto alla Libia si è ripetuto in gran parte del Maghreb, così come hanno potuto testimoniare relatori e relatrici provenienti dal mondo intellettuale e dell’impegno civile di Tunisia, Egitto, Siria. In maniera diversa, con vicende e percorsi che cominciano ad interrogare in maniera forte e problematica le società, i loro sistemi valoriali, il rapporto con la religione e con la tradizione. Ma, ed è stato ripetuto a lungo da chi ha cercato di rompere uno stigma assurto al ruolo di tabù, quello che avveniva in quei regimi non era ignorato nell’altra sponda del Mediterraneo. «Il ruolo dell’occidente intero è stato quello di non voler vedere – ha affermato Ayman Al Sayyad, direttore del quotidiano egiziano Weghat Nazar – I governi dei Paesi europei e molti loro leader che si sono succeduti ne erano informati». Ma anche dagli ospiti degli altri Paesi è emersa con evidenza lampante come la “ragion di stato” abbia portato per decenni a non voler capire e conoscere il livello orrendo della violazione dei diritti compiuti da governi con cui esistevano vantaggiosi accordi commerciali.

Lo ha ricordato Laura Boldrini all’inizio dell’incontro, lo hanno in maniera diversa sottolineato anche altri interventi: gran parte delle donne, e non solo delle donne che sono arrivate a cercare riparo dalla ferocia di guerre e dittature sulle coste italiane, portavano ancora addosso i segni della violenza subita e non  rimarginata. Per le donne la violenza è stata spesso un “pedaggio” da pagare in cambio di un barlume di speranza in più, di poter arrivare a superare le frontiere e lasciarsi tutto alle spalle. Ma l’incontro importante alla Camera dei Deputati si è svolto mentre in tutti i Paesi interessati la situazione non è affatto stabilizzata. E di violenza sulle donne si è tornato a parlare in Piazza Tharir al Cairo, una piazza ormai divenuta simbolo di volontà di cambiamento. Non a caso il rappresentante egiziano (l’incontro si è tenuto tre giorni prima della deposizione del Presidente Morsi) ha affermato che il suo popolo: «Forse  non sa ancora cosa vuole, ma sa bene cosa non vuole più». Ed è necessario – come è stato affermato da tutti gli intervenuti – che l’incontro organizzato, per produrre realmente “riconciliazione” e stabilità nella democrazia, veda i governi europei più pronti e attenti che in passato. Le tensioni di queste settimane potrebbero indurre ancora una volta molti giovani, uomini e donne, a cercare prospettive in Europa. Occorre che  si sia in grado di mostrare un volto diverso rispetto a quanto accaduto in passato.

Stefano Galieni