Grecia

L'Europa che non è in Europa

- 14 Luglio 2013

La testimonianza del videomaker Kami Fares, arrestato mentre documentava, al porto di Patrasso, la condizione dei rifugiati che cercano di raggiungere l’Italia.

«Qui non siamo in Europa, siamo in Grecia». Una frase detta urlando da un agente di polizia nell’esercizio delle sue “funzioni”, in una storia che sintetizza in maniera efficace quanto stia avvenendo in un Paese così vicino. Kami Fares è un videomaker italo-palestinese di 30 anni, nello scorso giugno è stato in Grecia, nel porto di Patrasso, insieme al collega Paolo Martino e a Rahel, un kurdo iracheno che ha svolto la funzione di interprete. Rahel, fino a non molto tempo fa, era fra i tanti che da Igoumeniza, altro porto greco, tentavano spesso inutilmente di entrare in Italia vivendo in condizioni inenarrabili; ora non solo ci è riuscito, ma ha ottenuto lo status di rifugiato e lavora per aiutare chi è rimasto in condizioni come le sue. «Sapevo già che avrei incontrato una realtà dura – racconta Fares – Da tanti anni Italia e Grecia attuano quelli che chiamiamo “respingimenti ping pong”. Le persone si nascondono sotto i camion o nei container e si imbarcano sulle navi che arrivano a Venezia, Ancona e Bari. In teoria, chi arriva dalla Grecia non potrebbe essere respinto perché il paese è stato sospeso dagli accordi di Dublino per gravi infrazioni e violazione sistematica dei diritti umani. Ma molto spesso la polizia italiana fa finta di niente, neanche registra le persone intercettate e le ricarica – spesso si tratta di minori – nelle stesse navi da cui sono sbarcati». Il gruppo è partito il 10 giugno, l’obiettivo era quello di produrre materiale documentale di cui in Italia c’è ancora molto bisogno. «Sapevamo di dover procedere in maniera molto accorta – racconta il reporter – Noi pochi giorni dopo saremmo ripartiti e non potevamo mettere a rischio la vita dei tanti giovani (sono in centinaia: afghani, sudanesi, maghrebini, siriani, kurdi ecc…) e dovevamo costruire con loro un rapporto di fiducia. Abbiamo incontrato una realtà tremenda: vivono tutti nelle fabbriche dismesse del porto da cui possono vedere, come presenze costanti, le navi che partono. Conoscono gli orari e hanno ormai dei rituali per la partenza, si coprono con vestiti neri, per non essere notati e salutano tutti nella speranza di farcela. Spesso la speranza si scontra con il fatto che il porto è pieno di polizia, gli agenti creano vere e proprie barriere. Chi viene notato tenta di fuggire, scappa, si fa male, spesso viene picchiato. Ci sono persone che passano anni in questo limbo, vivendo in mezzo all’immondizia. Un gruppo di afghani è stabilmente in quello che lì chiamano il pashtun garage, dormono sul tetto, perché sotto è pieno di topi e immondizia, molti sono minorenni».

Un impatto pesante Kami lo ha avuto con l’estrema destra: «In Grecia tira una bruttissima aria – racconta – sono troppi i personaggi inquietanti che vorresti evitare. Le ronde di “Alba Dorata” vanno in giro per pestare, neanche hanno bisogno di mascherarsi. Un giorno siamo finiti in una piazza dove c’erano ragazzoni con le bandiere nere, il simbolo dell’“aquila”, che cantavano canzoni inneggianti al fascismo. Una scena surreale: c’erano tre energumeni affacciati ad un balcone e gli altri, non tanti, che sembravano far parte tutti di un servizio di sicurezza, ma non si capiva chi dovessero proteggere. Si sono avvicinati a noi e ci hanno cacciato in pochi minuti. Loro non vogliono mai essere ripresi in video, ma siamo riusciti a rubare delle riprese».

Uno studio recente ha evidenziato che, tra i poliziotti greci, uno su due avrebbe votato Alba Dorata. Agenti di polizia e militari votano in seggi speciali dove i voti presi da questo partito sono stati infinitamente superiori rispetto ai seggi normali. I poliziotti passano tranquillamente dall’indossare la divisa alla “camicia nera” quando non sono in servizio». Kami e Rahel hanno avuto ben presto modo di conoscere tali modalità a dir poco autoritarie: «Eravamo andati alla Abex, una fabbrica abbandonata, in cui vivono molti afghani. Abbiamo conquistato la loro fiducia e ci stavano raccontando storie tremende. Mi resta impressa quella di Nabi, che aveva visto la madre uccisa da una granata e aveva deciso di fuggire. Era stato preso dai trafficanti e tenuto legato per giorni. Gli avevano spento tante volte sigarette su tutto il corpo tanto da avere infinite cicatrici. Dopo averlo intervistato, stavo facendo alcune riprese di vita quotidiana rimanendo dentro. Si è fermata una volante, gli agenti a bordo ci hanno visto e sono scesi. Ci hanno chiesto chi eravamo e detto che non potevamo effettuare riprese. All’inizio sembravano agitati poi si sono tranquillizzati e ci hanno intimato di non uscire. Noi ci siamo caduti. Aspettavano solo i rinforzi. Sono entrati in 6. Uno, il più grosso, mi ha preso e ammanettato. Io volevo parlare, ho chiesto di non rovinarmi l’attrezzatura. Loro mi volevano mansueto ma non sono riusciti a spaventarmi. Poi hanno cercato e trovato Rahel che si era mischiato fra gli altri, ci hanno chiesto mille volte i documenti, e cercavano di farci cadere in contraddizione perché pensavano fossero falsi. Dicevano che ero iracheno. Non ci hanno accusato di nulla, per un periodo che ci è parso interminabile, ci hanno detto che attendevano ordini da Atene. Io tentavo di dire che stavo lavorando come loro, che non stavo facendo nulla di male. Ci hanno caricati e portati in questura dove siamo rimasti rinchiusi per almeno 6 ore. Nel frattempo si era sparsa la notizia. Una ragazza greca ci ha chiamato un avvocato. Non c’era alcun capo di imputazione nei nostri confronti e secondo il legale al massimo rischiavamo di passare la notte dentro. Ad un certo punto ci hanno lasciato andare come se non fosse accaduto niente». Ma per i rifugiati della Abex è andata diversamente. Si sono presentati altri agenti che hanno buttato all’aria tutte le poche cose che avevano, cibo e vestiti. Poi ne hanno preso uno a mò di esempio e hanno urlato che non dovevano più provare a parlare con i giornalisti. «Siamo tornati il giorno dopo – racconta Kami – e abbiamo trovato paura e diffidenza. Avevamo portato un po’ di spesa perché sapevamo di averli messi nei guai, con noi c’erano gli operatori dell’associazionismo, che portano loro le medicine. Abbiamo cercato di far capire  quanto fosse importante far sapere al mondo la gravità e l’illegalità di quanto era accaduto, ma non si fidavano più ed era difficile dar loro torto, non c’è stato nulla da fare. Allora siamo stati in altri posti, ma la voce si era sparsa e molti avevano paura, o meglio, c’era anche chi ci aveva preso in simpatia. Ci sentiva simili perché avevamo conosciuto la normalità con cui venivano trattati loro e perché eravamo stati arrestati, comunque alcune testimonianze siamo riusciti a raccoglierle. Rahel parla una infinità di lingue, anche il farsi, l’inglese, l’arabo ed è stato per noi fantastico. Io non ho problemi, sono cittadino italiano ma per lui ho avuto timore».

Ma le disavventure non erano finite lì: «Al ritorno, stavo facendo riprese fuori dal porto, perché dentro non è permesso, quando mi si è avvicinato un agente, mi ha mostrato il distintivo e io gli ho fatto vedere la macchina fotografica e ha guardato la mia ultima ripresa notando che da fuori avevo ripreso il porto. Ho cercato di comportarmi civilmente ma lui pretendeva di farmi cancellare il materiale. Ho detto di no, ho alzato la voce e lui non aspettava altro. E allora ha urlato quella frase che mi è rimasta in testa: “Qui non stai in Europa ma in Grecia!”. La nave stava partendo e gli agenti ci hanno fermato e svuotato tutta l’automobile. Io per levarmi di impaccio ho cancellato due clips, ma lui voleva prendersi la soddisfazione di veder cancellata ogni immagine. Alla fine ci è andata bene, la nave è partita in ritardo e ci siamo imbarcati. Comunque non ho mai visto in vita mia tanto menefreghismo nei confronti della legge. Questa è la loro risposta alla crisi e sono partito con delle pessime sensazioni per il futuro di quel Paese. E pensare che ero stato a fare riprese in Tunisia, in Angola, anche in momenti duri e non mi era mai accaduto nulla di simile. Arrivati in Italia ci ha fermato la Guardia di Finanza che in maniera civilissima ci ha chiesto di controllare delle bombole del gas che avevamo. Ultimamente vengono usate per trafficare droga. Ma in pochi minuti ci hanno tranquillamente lasciato andare mostrando professionalità. E in diretta ho ricevuto una splendida notizia, uno dei ragazzi che avevo intervistato e che mentre ero lì era poi partito ce l’aveva fatta. Ora è in Francia e spero che il suo futuro sia veramente migliore del suo passato».

Stefano Galieni