Burocrazia schizofrenica

Avanti e andré, che bel divertimento!

- 21 Luglio 2013

La Prefettura autorizza l’ingresso in Italia, ma l’ambasciata gli nega il visto. Le peripezie di un giovane pakistano. In questo caso, a lieto fine.

«Visto l’art. 4 del Testo Unico Immigrazione, Le comunichiamo che la Sua domanda di visto è stata respinta». Potrebbe essere l’incipit di un qualsiasi provvedimento di rifiuto del visto, uguale a tanti altri. Ogni anno, migliaia di cittadini stranieri chiedono di entrare legalmente nel territorio nazionale: si presentano alle Ambasciate italiane, e fanno domanda sugli appositi moduli. Spesso ottengono risposta positiva e possono partire, ma qualche volta la procedura va male e gli uffici consolari respingono le richieste. Cose che possono capitare.

La storia che vi raccontiamo, però, è molto diversa dalle altre. Perché l’immigrato pakistano coinvolto in questa vicenda aveva il diritto di entrare in Italia: e a dirlo non siamo noi, ma la Prefettura di Lucca in un suo provvedimento ufficiale.
L’Ambasciata italiana a Islamabad ha deciso di ignorare quel provvedimento, e ha fatto di testa propria. Una piccola, piccolissima storia di accanimento burocratico, che forse può dirci qualcosa di come (non) funzionano le nostre sedi consolari all’estero.
Ma a questo punto sarà bene riavvolgere il nastro e cominciare dall’inizio.

Un’espulsione nata male
Alì – il nome è di fantasia – è un pakistano che arriva in Italia da irregolare. Come molti suoi connazionali, vive nel nostro paese senza permesso di soggiorno, ma ha la fortuna di trovare presto un lavoro: conosce una famiglia che abita nella zona di Pietrasanta (in Toscana), e viene assunto come domestico. Il suo sogno è quello di mettersi in regola, ma la legge è spietata e non consente alcuna regolarizzazione per chi è già qui. Così, come tutti, Alì si deve adattare.

Poi, un bel giorno, viene la “sanatoria”: nel settembre 2012 una “legge speciale” consente ai datori di lavoro di mettere in regola i propri dipendenti stranieri. Alì segnala subito la cosa alla signora da cui è stato assunto. Il ragazzo ha fretta, ma la famiglia ha bisogno di un pochino di tempo: c’è bisogno di sentire un avvocato, di conoscere nei dettagli la procedura, di capire i rischi che si corrono nel presentare la domanda.
Passa qualche giorno e la signora, fatte le dovute verifiche, si decide: farà la regolarizzazione. Basta solo procurarsi i documenti necessari, pagare 1.000 euro per avviare la procedura, e il gioco è fatto. Alì è (o sembra) salvo.

Nel frattempo, però, succede un imprevisto. Il ragazzo incappa in un controllo di polizia: gli agenti gli chiedono i documenti di soggiorno, ma lui – come sappiamo – è irregolare. Viene accompagnato in Questura, dove riceve un provvedimento di espulsione: imbarcato in fretta e furia su un aereo, viene rispedito in Pakistan. La sua avventura “italiana” sembra finita. Ma non è così. Perché questa vicenda è piena di imprevisti, e di veri e propri colpi di scena.

… e finita bene
No, la storia non è ancora finita. Perché quell’espulsione è chiaramente illegittima. La legge che ha disposto la “sanatoria”, infatti, prevede esplicitamente la sospensione di tutte le espulsioni di lavoratori stranieri irregolari: e la cosa vale anche per coloro che, pur avendo i requisiti per accedere alla sanatoria, non hanno ancora presentato formalmente la domanda.

Tiziana Pedonese, l’avvocatessa dell’Asgi che segue la vicenda in questa prima fase, scrive una lettera alla Prefettura di Lucca e chiede la revoca del provvedimento di espulsione. Le motivazioni ci sono tutte, e infatti la Prefettura accoglie la richiesta: alla fine del mese di novembre 2012, l’espulsione è revocata. Alì ha diritto a firmare il contratto di lavoro, e di conseguenza a ricevere il permesso di soggiorno, come previsto dal decreto di sanatoria.

C’è solo un piccolo problema. Alì, come sappiamo, non è in Italia. Si trova in Pakistan, a seguito di un provvedimento dichiarato illegittimo dallo stesso ufficio che l’ha emesso. Dal punto di vista normativo, però, non ci sono dubbi: Alì può e deve tornare nel nostro paese per firmare il contratto di lavoro. Altrimenti, la revoca dell’espulsione sarebbe un provvedimento privo di effetti.

Il (re)ingresso negato
Alì si reca all’Ambasciata italiana di Islamabad – la capitale del Pakistan – per chiedere il “visto di reingresso”. Compila l’apposito modulo, lo consegna ai funzionari consolari, e aspetta fiducioso la risposta. Pochi giorni dopo gli viene recapitato il provvedimento n. 2581 del 22 maggio 2013. Vi si legge la frasetta con cui abbiamo cominciato questo articolo: «Visto l’art. 4 del Testo Unico Immigrazione, Le comunichiamo che la Sua domanda di visto è stata respinta».

«Il visto di reingresso», argomentano i funzionari dell’Ambasciata, «può essere concesso allo straniero regolarmente soggiornante in Italia il cui documento di soggiorno sia scaduto da non più di 60 giorni, per il quale non sia stato richiesto il rinnovo nei termini previsti». Del provvedimento della Prefettura non si parla. E non si dice nemmeno che Alì si trova in Pakistan per un errore fatto dalla burocrazia italiana, a cui per fortuna la stessa burocrazia aveva rimediato.

E in fondo al provvedimento dell’Ambasciata, la frase che suona come una beffa: «Lei potrà presentare ricorso al Tribunale del luogo in cui risiede il familiare che ha richiesto il ricongiungimento». Di cosa stanno parlando? Nessun familiare ha mai richiesto il ricongiungimento: Alì chiede di entrare in Italia per motivi di lavoro. Quella frase, probabilmente, si trova lì per sbaglio: i funzionari hanno scritto il testo in fretta e furia, forse senza guardare le carte, probabilmente utilizzando un formulario prestampato. E per di più hanno preso il formulario sbagliato…

L’avvocatessa Anna Petroni di Viareggio, che ha seguito le ultime fasi della vicenda, promette di fare ricorso. Ma, per legge, il ricorso contro il diniego di visto si fa al Tribunale Amministrativo del Lazio: è una procedura costosa e lunga. Alì dovrà sborsare dei soldi, e aspettare chissà quanti mesi. Di fatto, sarà lui a pagare per gli errori della burocrazia italiana.

È una piccola storia, questa. Sicuramente più piccola, e meno importante, di quella della signora Shalabayeva di cui tanto si è discusso in queste settimana. Eppure, mettendo insieme le storie più grandi (la moglie del dissidente kazako espulsa in violazione del diritto di asilo) e quelle più piccole (il lavoratore straniero vittima della burocrazia) quel che viene fuori è davvero un bel quadretto del Belpaese…

Sergio Bontempelli