Cara di Bari-Palese

Morire d'asilo

- 21 Luglio 2013

Haimane è morto il 3 luglio. Aveva 26 anni. Era un giovane curdo proveniente dall’Iraq. L’occasione della sua morte è stata una rissa tra immigrati, ma a ben vedere Haimane non è morto per questo.

Non è morto per una presa in giro tra ospiti alticci o per un conflitto tra diverse etnie… A ben vedere Haimane è morto a causa delle carenze strutturali del sistema di accoglienza e dell’inesistenza delle politiche volte a garantire l’effettivo esercizio del diritto d’asilo. Da questo punto di vista Haimane può avere molti volti e molti nomi: quelli dei tanti che non diventano mai cronaca, che muoiono in silenzio, che compiono atti di autolesionismo, che scompaiono nel buco nero della non accoglienza. Haimane rappresenta anche coloro che sono morti sulla statale e sul tratto di binari che collega il Cara di Bari-Palese alla città, nel tentativo di esercitare il diritto alla mobilità in assenza di un adeguato servizio di trasporti.
Il Cara di Bari-Palese versa in una condizione di degrado e di abbondono, con persone stipate nei moduli (la capienza massima ufficiale è 940 posti, le presenze reali sono il doppio), totale inadeguatezza delle condizioni igienico-sanitarie, assenza di supporto per le persone più fragili e vulnerabili, nessuno standard minimo rispettato. In più occasioni i richiedenti asilo di Bari hanno protestato chiedendo condizioni migliori ed il diritto alla protezione negata, non ricevendo alcuna risposta.
La vita spezzata di Haimane però non denuncia solo le drammatiche condizioni di un singolo Cara, ma le gravi e croniche carenze del sistema di accoglienza italiano, la schizofrenia dei modelli esistenti, la sistematica violazione dei diritti, i trattamenti degradanti, la condizione di invivibilità dei Cara e l’assenza dei servizi essenziali, l’insufficienza dello Sprar, l’assenza di progetti di seconda accoglienza, l’inesistenza di percorsi alternativi, l’assenza di percorsi per l’autonomizzazione o di sostegno al diritto all’abitare.
La questione è dunque molto più complessa ed attiene piani e responsabilità differenti, non riguarda solo le condizioni dei Cara che comunque non rappresenterebbero un modello di accoglienza neanche se ci fossero villette al posto dei moduli. Il problema sono il sistema d’accoglienza predisposto dal governo italiano e il sistema asilo nel suo complesso, che fanno acqua da tutte le parti.
Lo dimostrano i rifugiati somali di Bari che da anni occupano la struttura del Ferrhotel, senza neppure l’acqua; lo dimostra l’occupazione dell’ex Socrate, lo dimostrano gli accampamenti nel foggiano, l’ex pista a ridosso del Cara di Borgo Mezzanone a Foggia.
Lo dimostra la situazione dei rifugiati a Roma, a Torino, a Bologna e nel resto d’Italia. Lo dimostra la morte di Mohamud Mohamed Guled rifugiato somalo di 31 anni, inizialmente accolto a Pisa in un progetto del piano governativo per l’Emergenza Nord Africa. Mohamud si è ucciso perché non ce la faceva più, stremato dall’incertezza cui è stato costretto per troppo tempo e dalla mancanza di alcuna prospettiva, nonostante avesse ottenuto il riconoscimento della protezione.
Perché in Italia si muore anche di asilo politico.
Per tutto ciò, parlare delle condizioni drammatiche e del sovraffollamento dei Cara di Bari-Palese o nel resto d’Italia, è necessario, ma non sufficiente. La questione andrebbe affrontata in tutta la sua complessità, richiamando le istituzioni alle loro responsabilità. Ed avviando una riflessione sul diritto d’asilo in Italia ed in Europa.
Queste vicende che squarciano il velo dell’invisibilità, rivendicano l’esigibilità del diritto all’asilo ed alla protezione: dall’accesso alla procedura all’iter, dalla prima accoglienza al riconoscimento, dall’autonomia al diritto all’abitare e ad una vita dignitosa. Raccontano le storie degli uomini e delle donne che arrivano in Italia in fuga dai loro paesi. Denunciano le difficoltà ad accedere alla richiesta d’asilo, i tempi lunghi per formalizzare la richiesta di asilo, la drammaticità della condizione cui ti costringe la Convenzione Dublino, i tempi in attesa dell’audizione, le modalità di ascolto delle Commissioni territoriali e la considerazione della vulnerabilità, la percentuale di dinieghi, l’effettivo esercizio del diritto alla difesa, l’accesso al gratuito patrocinio, la mancanza di prospettive, l’assenza di una politica di accoglienza e di azioni a sostegno dei percorsi di autonomia ed inclusione sociale. Parlano di vita e di morte.
E ci dicono che il tempo delle risposte dovrebbe essere questo.

Erminia Rizzi