Dossier InMigrazione

Libia, l'inferno a portata di tutti

- 21 Luglio 2013

Caduto Gheddafi, nelle carceri non è cambiato niente. Ma l’Italia ha rinnovato gli accordi. Che sia kazako o libico, petroleum non olet.

Dopo Punjab, sulle condizioni di lavoro di migliaia di indiani sikh nella provincia di Latina, e Odissea afghana, sul viaggio dall’Afghanistan verso l’Europa, In Migrazione Onlus presenta un altro dossier impegnativo e quanto mai attuale. Un dossier che aspira ad aprire un dibattito serio e qualificato sulle allucinanti condizioni imposte a migliaia di uomini e donne nelle carceri libiche e che dovrebbe dare un sussulto alla classe dirigente italiana ed europea.
Il suo titolo è 0021 trappola libica e racconta le esperienze vissute dai migranti intrappolati in un Paese in cui il rispetto dei diritti umani è un’opzione raramente utilizzata. Le storie sono state raccolte al telefono dalla viva voce dei protagonisti. «In una stanza di quattro metri per quattro siamo in 17», dice Abdusalam. «Non c’è scelta, ci facciamo coraggio e cerchiamo di resistere». Meno di un metro a testa. Difficile davvero, per chi si trova altrove, come noi, immaginare cosa sia la vita in un metro quadrato.
Il racconto non cambia con John, che parla anche lui per telefono dal carcere di Gandufa. «Qui ti tirano il cibo in faccia, ti picchiano senza alcun motivo, ti prendono a schiaffi, ti minacciano con i fucili e le pistole, qualsiasi libico ora ha fucili o pistole, te le puntano alle tempie». Diritti negati dunque, violenza, prevaricazione, stress continuo.
Le condizioni di non vita nelle carceri libiche erano state già denunciate nel 2006 dall’ex direttore del Sisde, prefetto Mario Mori, quando affermò che in Libia si veniva «…accalappiati come cani, messi su furgoncini pick-up e liberati in centri di accoglienza dove i sorveglianti per entrare devono mettere i fazzoletti intorno alla bocca per gli odori nauseabondi… Il centro prevede di ospitare cento persone ma ce ne sono 650, una ammassata sull’altra senza il rispetto di alcuna norma igienica e in condizioni terribili». Da allora, nonostante rivolte, reportage e il crollo del regime del dittatore Gheddafi, nulla è cambiato. Come In Migrazione ricorda nel dossier, sono stati stretti nuovi accordi tra la Libia e l’Europa, fiumi di finanziamenti hanno continuato a scorrere (talvolta straripando) e così investimenti e contratti per gas e petrolio, ma le violenze e i soprusi non sono terminati. La Libia resta un luogo di detenzione brutale e disumano che obbliga chiunque riesca a sfuggire alla detenzione ad intraprendere il terribile viaggio in mare per conquistare non tanto un futuro migliore quanto una speranza di vita. Si consideri, inoltre, che più del 75% dei migranti che riescono ad arrivare in Europa hanno tutti i motivi per presentare la richiesta di asilo politico, in fuga da Paesi che non consentirebbero il loro espatrio o da conflitti, fame e povertà. Un dato che meriterebbe una profonda riflessione, un esame di coscienza e soprattutto un celere cambio di ragionamento e impostazione del dibattito sulle migrazioni per ipotizzare di diventare, almeno su questo versante, un Paese civile.
La situazione in Libia è resa ancora più drammatica e oscura, come si legge nel dossier, dalla mancanza di un «censimento dei luoghi di detenzione, così come il numero di migranti forzati che affollano questi non-luoghi. Chi siamo riusciti a contattare ci ha raccontato di almeno 500 persone “accolte” nel campo della Mezzaluna rossa a Benghasi, altrettante rinchiuse a Kubz, 1.300 a Sabha nel deserto. Secondo Amnesty International sono 5.000 i migranti forzati rinchiusi in 17 centri di trattenimento, che vanno ad aggiungersi ad altre 4.000/6.000 persone tra carceri comuni e campi di accoglienza gestiti da miliziani. La Croce Rossa Internazionale, per esempio, di strutture ne ha visitate 60». Numeri spaventosi, buchi neri che ingoiano uomini, speranze e diritti, denunce che meritano di essere raccolte e portate all’attenzione della comunità internazionale.
Le torture sono dunque all’ordine del giorno e l’inferno in Libia sembra alla portata di tutti, nessuno escluso.
«Tutti i reclusi subiscono sistematicamente trattamenti crudeli e degradanti, percosse, stupri e torture, purtroppo non è dato sapere con certezza quante siano le donne e i minori che condividono con i loro compagni di viaggio questo infernale girone dantesco. Per avere un’idea però si può considerare che nel 2011 sono sbarcati a Lampedusa 4.300 minori non accompagnati». D’altro canto, cosa aspettarsi da un Paese che, come ha ricordato il presidente dell’associazione Simone Andreotti, «non contempla un sistema d’asilo, non ha mai ratificato la Convenzione di Ginevra sui diritti dell’Uomo ed è un luogo di detenzione disumana ormai conclamato. Dal 2010 persino l’Unhcr è impossibilitato al controllo del rispetto dei diritti umani. L’ostinazione dell’Occidente a non voler vedere, rende lecite le pratiche brutali che il Paese utilizza per il controllo dell’immigrazione e ci rende colpevolmente complici». Un atto d’accusa provato dalle testimonianze del dossier che chiama in causa Governi, Onu, Ue, ong e quanti potrebbero e dovrebbero intervenire per far cessare il massacro dei diritti e degli uomini in Libia. È evidente che attraversare il Mediterraneo rappresenta, per i migranti che vogliono evitare di cadere in quella spirale di violenza e soprusi, l’unica speranza. Ogni traversata ha un costo che si aggira tra i 900 e i 1.200 euro. La consapevolezza dei rischi legati alla fiducia che si deve nei riguardi dei cinici trafficanti e scafisti è sicura, ma prendere il mare, seppure con imbarcazioni vecchie e inadeguate, per i migranti a volte è una via obbligata, nella speranza che quel grande “mare nostrum” non diventi, come purtroppo è capitato, la loro tomba.
«Questa non è vita, non posso tornare, non c’era alcuna scelta, per forza dovevo rischiare, per questo il viaggio non ti fa paura, nessuno ha paura di provare il mare, tutti hanno il desiderio di uscire dalla Libia, perché vivere con i libici vuol dire vivere in un incubo», spiega Teklemariam. Eppure nei primi sei mesi del 2013 si contano 40 persone tra morti e dispersi di cui si è avuta notizia, su circa 7.800 persone arrivate sulle coste italiane sane e salve.
Queste morti potrebbero essere evitate, sostiene Andreotti. Nel dossier troviamo proposte concrete in questo senso: in particolare, il rilascio di un lasciapassare nelle ambasciate e nei consolati europei, nei Paesi di transito, per poter fare richiesta d’asilo in Europa, così da mettere fine alla sofferenza delle persone, salvarne la vita e rompere gli interessi del traffico di esseri umani e dei suoi speculatori.

Marco Omizzolo