Letture meticce

Julius nella grande mela

- 28 Luglio 2013

Intervista allo scrittore nigeriano Teju Cole, autore di Città aperta, romanzo su NY, la multiculturalità, le radici.

Julius, un giovane psichiatra di 32 anni, figlio di madre tedesca e padre nigeriano, cresciuto in Nigeria e poi emigrato negli Usa, si concede lunghe passeggiate senza meta per New York. Parla con la gente, osserva, riflette: sulla multiculturalità, sulle radici, sulla vita negli Usa dopo l’11 settembre. Il suo sguardo è curioso, lucido e privo di giudizio: seguirlo per le strade di NY è come intraprendere un viaggio intorno al mondo. Julius è il protagonista di Città aperta di Teju Cole (Einaudi, euro 17,50), scrittore nigeriano 38enne che vive a Brooklyn. È il suo primo romanzo e negli Usa ha avuto un’ottima accoglienza.

Innanzitutto, la domanda più ovvia: in che misura Julius è il suo alter ego?
«Città aperta è un romanzo e Julius è un personaggio fittizio. A volte è facile trovare similitudini tra persone che non hanno alcuna connessione tra loro. Per esempio Julius è di umore nero e dubitativo, si è allontanato dalla madre, ha perso il padre, si è comportato male con la fidanzata, si perde in monologhi interiori. Niente di tutto ciò mi appartiene, ma appartiene ad Amleto: eppure nessuno pensa che Julius sia stato costruito su Amleto. Le somiglianze sono facili da trovare, se le si cercano. Abbiamo un numero limitato di archetipi a cui fare riferimento. Un altro esempio: Julius ha più cose in comune con Obama (la laurea a NY, il padre africano e la madre bianca) di quanto si potrebbe immaginare, eppure io avevo creato questo personaggio prima di conoscere Obama. Per rispondere in poche parole alla domanda: Julius non sono io».

Julius descrive quello che vede intorno a sé: una città fatta di persone che hanno le radici in altri luoghi. Gli Stati Uniti, nati anche dalla prevaricazione di alcuni uomini su altri, hanno sempre attratto migranti da tutto il mondo. Anche l’uomo che Julius incontra in un centro di detenzione afferma: “Voglio rimanere in questo Paese”. Esiste ancora un Sogno Americano? Cosa è cambiato con Obama?
«
È proprio vero che esiste questa contraddizione – questa tensione irrisolta e irrisolvibile – nel cuore degli Stati Uniti. Da un certo punto di vista la si potrebbe considerare una grande ipocrisia. Il contrasto tra quello che gli Usa promettono e la realtà è acceso. E le persistenti persecuzioni che hanno portato alla prosperità americana non si possono ignorare. D’altra parte, io non credo che il desiderio che così tante persone di tutto il mondo nutrono, in ogni Paese e in ogni continente, di venire in America e realizzare il Sogno Americano, sia privo di fondatezza. Nonostante tutte le promesse infrante, resta comunque un sapore di libertà nel modo americano di fare le cose. Non mi pare che l’elezione di Obama abbia modificato questa realtà. L’America rimane fondamentalmente se stessa. Quello che voglio dire è che alcune cose sono in effetti migliorate con la sua elezione, ma altre sono peggiorate».

Le radici e l’identità sono due temi importanti nel suo libro. Julius, meticcio, non si sentiva totalmente nigeriano in Nigeria e non si sente americano negli Usa. Questo essere sempre a metà tra due culture è uno status obbligato per tutti i migranti e/o meticci? Com’è per lei?
«Nel caso di Julius ho fatto qualcosa che definirei un gesto di ampio respiro, in un libro che è pieno di gesti minimi: l’ho creato meticcio. Questa caratteristica fa subito venire in mente un conflitto, una divisione a metà. Mi è sembrata una scelta funzionale a mettere in evidenza come oggi siamo tutti “misti”. Io non condivido le ansie di appartenenza di Julius –  mi sento un cittadino del mondo, nel bene e nel male – e tutto sommato non credo che nemmeno Julius sia poi così in ansia. Sta semplicemente prendendo in considerazione tutte le possibili risposte alle domande sulle sue radici. E ha trovato una sorta di stabilità dinamica nella quale viaggia rapido, avanti e indietro, attraverso le identità europea, nordamericana e africana».

Il protagonista è interessato ai percorsi esistenziali delle persone, forse perché vuole tracciare il proprio. Eppure, quando va a Bruxelles, sulle tracce della nonna tedesca, non fa granché per trovarla. Si perde nelle vite degli altri e poi torna a NY. Perché?
«Perché le nostre personali motivazioni non sempre sono chiare a noi stessi e non sempre ci rechiamo in un posto per il motivo per cui crediamo di farlo. Oppure, per dare una risposta più letteraria: avevo bisogno che lui visitasse Bruxelles, che è l’altra “città aperta” del titolo».

NY è stato il primo “melting pot”, ora ce ne sono molti anche in Europa. Quale differenza trova nel modo in cui NY e altre città come Londra, Parigi o Bruxelles accolgono i migranti e gestiscono la migrazione?
«Queste città sono incredibilmente simili tra loro, considerando quanto sono diverse le loro storie. Tutte hanno una Chinatown e una zona piena di ristoranti indiani. In tutte si trovano barbieri e parrucchieri dell’Africa occidentale. Forse la differenza la fa il livello di integrazione che ci si può realisticamente aspettare. Sarebbe possibile, nel 2013, avere un primo ministro nero in Belgio? O in Italia? Forse no, e tuttavia questi sono paesi con una consistente popolazione di migranti».

Lei è anche un fotografo urbano: che influenza ha la fotografia sulla sua scrittura?
«Sia nella fotografia che in letteratura, io sono attratto dalla poesia della vita di tutti i giorni, il lirismo momentaneo contenuto in quelli che prima ho chiamato “gesti minimi”. In più, nella mia scrittura si ritrovano la sfida di creare una cornice, il bisogno di organizzare il campo visivo in una maniera interessante. Uso punti di vista alti e bassi: paracaduti, grattacieli, pianure, pozzi, metropolitane, piscine. Scrivendo, immagino gli scenari delle foto che vorrei fare se ne avessi l’occasione».

Lei sta lavorando a un libro sulla Nigeria: è per questo che al momento si trova a Lagos? Ci vuole raccontare di questo progetto?
«Sì, è per questo che mi trovo a Lagos. È la città più popolosa dell’Africa, visto che ha da poco ufficialmente superato la popolazione del Cairo. È anche il posto dove sono cresciuto, uno dei luoghi più  interessanti ed esasperanti del pianeta. In teoria non dovrebbe funzionare niente: troppa gente, troppo pochi servizi, infrastrutture terribili. E invece, in qualche modo, ce la fa. Lavorerò a questo libro, che è un saggio, per un paio d’anni ancora, durante i quali spero di continuare a viaggiare tra NY e Lagos, le mie due città».

Gabriella Grasso