Ius migrandi

La sfida che ci aspetta

- 28 Luglio 2013

Per essere vera, la pace non può essere che globale. E costruita su un nuovo modello di consumo. Tra ambiente, energie rinnovabili e diritto alla mobilità il nesso è più forte di quel che si immagina. 

Veniamo da alcuni anni durissimi, che hanno cambiato la mappa dell’economia mondiale. Anni, nel corso dei quali, la finanza ha preso il sopravvento su quella dimensione produttiva e manifatturiera che gran parte degli imprenditori italiani identifica come una missione.

Oggi, nel pieno di una crisi economica mondiale di portata epocale e con la consapevolezza che la crisi stessa, per la sua natura di tipo “sistemico” richieda intuizioni forti, con le quali governare ed indirizzare una fase particolarmente delicata e complessa, ci accingiamo ad affrontare un ulteriore anno difficile. La situazione peggiora sempre più in termini di staticità dei salari e della crescita della produzione; cessazioni di attività di migliaia di aziende medio/piccole; disoccupazione e cassa integrazione che aumentano vertiginosamente; forte incremento del conflitto sociale; crisi di liquidità finanziaria delle banche; difficoltà di accesso al credito da parte soprattutto della piccola e media impresa; tassi di interessi cresciuti a dismisura che disincentivano il ricorso alla leva finanziaria e, conseguentemente, disincentivano nuovi investimenti da parte delle imprese che, potenzialmente, le difficoltà di accesso al credito, le avrebbero superate (e.g. le grandi imprese).

Una ripresa dell’economia sembra ancora lontana ma, se pur possibile, dovrà certamente assumere connotati e orizzonti diversi da quelli attuali e in ogni caso non potrà avere, quali soggetti interessati, sempre gli stessi soliti fortunati, ovvero la popolazione delle cosiddette nazioni progredite. Va in effetti sottolineato che i cambiamenti del diciannovesimo e ventesimo secolo, legati ad una forte disponibilità di energia a basso costo, non hanno interessato tutte le nazioni del mondo, e che neppure tutti i cittadini delle nazioni progredite hanno goduto di questa abbondanza energetica. Questa circostanza ha contribuito a creare grandi diseguaglianze tra gli esseri umani difficilmente colmabili.

Per convincersi di tale fatto si osservi che gli Stati Uniti, con 311 milioni di abitanti, hanno 842 veicoli a motore ogni 1.000 persone, neonati inclusi. Invece la Cina e l’India, con una  popolazione complessiva di 2 miliardi e 500 milioni di persone, hanno rispettivamente 36 e 13 veicoli ogni 1.000 abitanti. Per rimediare a queste diseguaglianze sarebbe necessario mettere a disposizione dei paesi in via di sviluppo un’enorme quantità di energia. A titolo indicativo, se la Cina e l’India avessero 842 veicoli per 1.000 abitanti, con una percorrenza di 10.000 km/anno e con un consumo di 7 litri per 100 chilometri, quei due Paesi consumerebbero 8 miliardi di barili l’anno, ossia 22 milioni di barili al giorno: più del doppio della produzione dell’Arabia Saudita, un quarto della produzione mondiale. Chi fornirà il carburante alla Cina? Questa domanda, che già da anni aleggia negli ambienti economici e politici, è ormai un incubo che ha preso corpo nei forti aumenti nel prezzo del petrolio a partire dal 2003. Anche perché gli stessi paesi sviluppati aumentano continuamente il proprio consumo energetico…

La situazione prospettata è, nella sua gravità, estremamente chiara: il pianeta non può resistere, garantendo per tutti i suoi abitanti, l’attuale livello “occidentale” di consumi energetici, perché questo è troppo alto, perché le risorse energetiche, su cui finora si è basato il nostro sviluppo economico e sociale, sono di tipo non rinnovabile e, pertanto, destinate ad esaurirsi; risulta allora fuorviante prefigurarsi un modello di sviluppo a crescita illimitata.

A ulteriore riprova di quanto sopra osservato si rifletta sul fatto che gli USA , con meno del 5% della popolazione mondiale, consumano circa il 25% dell’energia; che un americano consuma energia come due europei, una decina di cinesi, una quindicina di indiani, una trentina di africani. Anche in questo caso per rimediare a queste diseguaglianze sarebbe necessario mettere a disposizione dei cosiddetti paesi in via di sviluppo o emergenti una quantità enorme di energia che di fatto non c’è. La sfida che ci aspetta consiste nell’affrontare questa situazione non per correre ai ripari, cercando una via di fuga, ma per cercare un nuovo percorso che ci guidi verso un nuovo concetto di sviluppo e di economia. Un’economia che consideri i danni ambientali (le cosiddette esternalità negative) e le riduzioni degli impatti ambientali (le cosiddette esternalità positive) come parte integrante del bilancio economico di un’azienda e di una famiglia. Occorre andare verso un’economia che consideri la voce “Ambiente” non come un vincolo o un limite, ma come un’opportunità di sviluppo.

Occorre una seria riflessione ed un cambio radicale dei nostri stili di vita riacquistando il senso del limite; passando, in ultima analisi, dalla logica del “di più” alla logica della sufficienza vivendo secondo l’etica della sobrietà, della solidarietà e della responsabilità nei confronti della terra e di tutti i suoi abitanti, presenti e futuri. Dovremo imparare a vivere l’infelicità dell’altro come un limite alla nostra felicità, il suo malessere come un limite al nostro benessere. Modificare, nel senso sopra specificato, il proprio stile di vita non determina necessariamente una riduzione dei consumi e quindi della produzione globale; va viceversa verso una globalizzazione e ridistribuzione della ricchezza: favorendo un processo di giustizia e quindi di sostenibilità sociale.

Quello che oggi manca, dopo le crisi sistemiche del modello capitalista e di quello comunista, è un modello di riferimento alternativo condiviso, a livello globale, che funga da faro e che definisca un giusto approccio, nei processi di globalizzazione, per raggiungere una “meta buona”.

Un contributo di portata fondamentale per definire quale possa essere una “meta buona” l’ha dato, a nostro avviso, a un anno dai tragici e disumani attacchi terroristici di New York e di Washington, Giovanni Paolo II, allorché ricordava ai cattolici e a tutte le persone di buona volontà quanto fosse urgente e necessario «uno sforzo concorde e risoluto per avviare nuove iniziative politiche ed economiche, capaci di risolvere le scandalose situazioni di ingiustizia e di oppressione che continuano ad affliggere i tanti membri della famiglia umana, creando condizioni favorevoli all’esplosione incontrollabile del rancore. Bisogna costuire insieme una cultura globale della solidarietà, che ridia ai giovani la speranza del futuro. Solo dalla verità e dalla giustizia possono scaturire la libertà e la pace. Su questi valori è possibile costruire una vita degna dell’uomo. Fuori di essi c’è solo rovina e distruzione».

Per la prima volta viene richiamata la connessione pace-globalizzazione, che oltre a rappresentare un grande appello, una sfida alla politica ed alla crisi evidente che essa sta attraversando, richiede una nuova consapevolezza soprattutto sotto il profilo della formazione della coscienza morale. Prefigurarsi una ripresa economica prescindendo dai capisaldi sopra evidenziati, affidandosi di contro ai soli modelli economici classici del passato, è forviante: in quanto, così facendo, non si affronta la crisi sistemica, che ci sta attanagliando, dalle sue radici più profonde: con la conseguenza di consegnare al futuro i problemi attuali ulteriormente amplificati. Per poter nutrire una fondata speranza di ripresa economica occorre imparare a vivere nella società globale; per fare ciò occorre partire da una scelta di pace.

Tra pace e globalizzazione non soltanto, in definitiva, non c’è contraddizione, ma addirittura la pace è la chiave interpretativa che ci permette di qualificare il nostro stare dentro ad una realtà investita dai processi di globalizzazione, recuperando la capacità politica di discernere, orientare, governare tali processi. Operare tale scelta di fondo (e.g. partire dalla scelta di pace) è, di fatto, il grande insegnamento di Giovanni Paolo II attorno alla questione della solidarietà: non elemento “aggiuntivo”, ma piuttosto punto di partenza nella costruzione della convivenza umana. Rinunciare ad affrontare la globalizzazione ed i processi di internazionalizzazione in termini di attenzione e di rispetto di quelle popolazioni che emergono nella storia e non volersi interrogare circa la giustizia, le ingerenze, gli sfruttamenti delle materie prime, il colonialismo, la costrizione e la volontà di mantenere in stato di ignoranza le popolazioni stesse, significa rifiutare uno sviluppo positivo che pure la globalizzazione può comportare a beneficio anche delle nazioni più povere. Da qui bisogna partite per creare una inversione di tendenza e, conseguentemente, per indicare gli obiettivi da porsi per favorire un approccio alla globalizzazione ed alla internazionalizzazione che punti ad una “meta buona” nell’accezione sopra specificata. In uno scenario quale quello sopra delineato, lo Ius migrandi, il diritto di migrare, si inserisce come uno strumento normale e necessario.

Domenico Grispino