Nardò

La voce dei braccianti

- 28 Luglio 2013

Il ministro Kyenge, in visita a questo luogo simbolo della lotta al caporalato, non l’ha potuta sentire. Poteva andare altrimenti? Il racconto di Clelia Bartoli.

Il cono di luce che illumina un ministro si sposta dove lui si muove e può permettere di dare risalto a realtà di norma buie e dunque dimenticate.
La ministra dell’integrazione Cécile Kyenge è arrivata a Nardò e questo ha permesso di puntare i riflettori sull’estremo sfruttamento dei braccianti nelle campagne italiane, sulle loro condizioni di vita aberranti, sul capillare coinvolgimento della criminalità organizzata nell’agroeconomia. Ma soprattutto, per riaffermare un principio che dovrebbe essere anacronistico e che invece è di drammatica attualità: “Mai più schiavi, mai più ghetti”.
La Kyenge ha visitato la Masseria di Boncuri, il casolare in cui i migranti hanno iniziato la rivolta grazie a cui è stata ottenuta una legge contro sfruttamento e caporalato, prima importante tappa di un percorso che ha bisogno di fare ancora strada.
Questa masseria, ampia, solida, vicina ai campi di lavoro, ora è disabitata. È rimasta un luogo simbolo, ma un involucro vuoto, uno spazio di potenzialità sprecate.
I braccianti vivono ora all’ombra di un uliveto, una sorta di slum di campagna che la ministra avrebbe voluto visitare con tranquillità, intrattenendosi a parlare con i lavoratori stagionali. Ma il livello di allerta per l’incolumità dell’esponente di governo è molto alto: un ragazzo che parla concitato per l’emozione più che per aggressività, un oggetto che cade bastano perché si ordini di portar via l’ospite d’onore. I braccianti rimangono disorientati, sedotti e repentinamente abbandonati dal codazzo di autorità e giornalisti.
Il sindaco del comune, Marcello Risi, a due giorni dalla visita ministeriale e ad appena due-tre settimane dal termine della stagione, ha ordinato il trasferimento dei braccianti dalla ex-falegnameria di contrada Serrazze ad uno spazio attrezzato in località Scianne. A dire del primo cittadino si tratta di una sistemazione rispettosa delle norme igieniche e particolarmente accogliente. Nei fatti è un campo dentro un recinto chiuso da un cancello, con bagni chimici, acqua corrente, con tende prive di fondo e brandine, a parecchi chilometri dai campi delle angurie e dei pomodori.
Ma perché nella mente di molta gente e soprattutto di molti amministratori il luogo di vita dei migranti più reietti ha per forza la forma di un “campo”: uno spazio perimetrato e segregato? Perché non riescono a smarcarsi dalla logica del ghetto? Perché non pensano che quei lavoratori potrebbero stare nelle case del paese, che un posto letto se lo potrebbero permettere se la loro paga non venisse sforbiciata dall’arroganza impunita dei caporali, dall’ignavia dei datori di lavoro evasori e sfruttatori, dall’indolenza dei controllori?
Dopo le visite all’aperto, ci si sposta in una gremita sala del Comune: la tensione tra la Cgil che ha organizzato l’incontro e il sindaco che fa gli onori di casa è palese. La Kyenge invoca la mediazione, rimarca che il primo nemico è la criminalità che specula sulla debolezza dei migranti impoveriti e collude il sistema economico. Rimarca che c’è bisogno di ripensare l’accoglienza.
La ministra dell’integrazione porta con sé i riflettori, ma intorno a lei si assiepano talvolta enti e persone che volontariamente o meno si frappongono tra piazza e palazzo, spezzando quel tentativo di dialogo diretto tra base e vertice.
Pertanto durante la conferenza si sono succeduti diversi discorsi interessanti, utili ed edificanti, ma non c’è stato spazio per le associazioni che stanno sul campo, per i sindacalisti di strada e soprattutto è mancata la voce per i braccianti.

Clelia Bartoli