Questioni aperte

Le trappole dell'intercultura

- 28 Luglio 2013

 Anche nell’antirazzismo ci sono ambiguità e mistificazioni. Un libro duro e necessario ci aiuta a scoprirle.

In copertina spicca un bianco che si finge nero (è la locandina del film Il cantante di jazz del 1927). Ma anche il sottotitolo Retoriche e pornografia dell’incontro e il titolo Contro l’intercultura non passano inosservati. L’insieme forse spaventa ma incuriosisce. Ho letto il libro di Walter Baroni (pubblicato da Ombre corte: 17 euro per 176 pagine) con uno strano mix di gusto, fastidio e cervello che frulla. In estrema sintesi considero Contro l’intercultura un libro duro – moooooooolto duro – ma necessario. Cattivo in qualche punto, complicato in altri e ovviamente si può dissentire su alcune questioni o sull’insieme ma è utile, fondamentale anzi, per bilanciare il buonismo e gli eccessi di semplificazione che dilagano sul groviglio di temi che i fanatici di acronimi potrebbero definire «mirmema» (migrazioni intercultura razzismi meticciato e molto altro). Baroni fra l’altro ci sbatte in faccia che le chiacchiere valgono zero o quasi rispetto ai rapporti di forza. Che in tutti questi temi i due grandi assenti sono la politica e l’economia. È un testo decisamente anti-razzista che però farà inferocire molti italiani che si considerano (e forse sono) dalla parte degli immigrati: ed è questa contraddizione che rende il libro fecondo. Sin dalle prime righe dell’introduzione Baroni attacca il «political correctness» e sin qui… Ma l’autore spiazza chi legge con questa dura formulazione: «il dialogo tra le culture fa coppia con l’ossessione securitaria» (il riferimento è all’Europa, non solo all’Italia) «come il poliziotto buono accompagna quello cattivo». E, dopo aver visto vari aspetti del dialogo, scrive: «il discorso interculturale offre anche un riparo comodo a una serie di studi che […] rappresentano l’urbanizzazione del vecchio razzismo di tipo biologistico». Poco dopo: «quelle che trovo rilevanti sono le funzioni di carattere strategico, svolte dal discorso interculturale, di discriminazione soft dell’altro e di neutralizzazione di tradizioni di pensiero ben più esplosive del moderatismo che caratterizza l’appello al dialogo». Così «i rapporti tra gruppi umani vengono depoliticizzati […] occultando corpose asimmetrie di potere». L’introduzione si conclude illustrando le tre ampie sezioni nelle quali il libro si divide. Nel primo capitolo Baroni smaschera la «retorica interculturale», esaminando (con il bisturi e a volte con l’acido muriatico) due campagne pro-integrazione: «la prima finanziata dal ministero del Lavoro» in epoca Berlusconi; la seconda, che tuttora continua, a opera di una ong milanese. La prima «risente pesantemente dell’immaginario leghista», la seconda rappresenta i migranti positivamente, «punta tutto sul loro essere persone». Eppure… alla fine la differenza è minima o meglio entrambe sono al fondo discriminatorie come Baroni, passaggio per passaggio, de-costruisce. Il secondo capitolo è centrato su «l’altro interculturale» come è rappresentato nell’ambito delle «scienze umane» (o presunte tali, si potrebbe aggiungere, considerando il basso livello di ricerche e conseguenti elaborazioni). Il terzo e ultimo capitolo esamina «i racconti in prima persona dell’incontro con l’altro interculturale, cioè quelle che definirei le autobiografie della differenza culturale. Mi sposto dunque dalla terza persona della scienza alla prima persona della testimonianza». In sede di recensioni è impossibile entrare nel dettaglio di un così complesso ragionare. Però alcuni punti di particolare interesse vanno evidenziati. Geniali a volte: come il paragone con gli stereotipi che raccontiamo di noi stessi (cioè italiani); e proprio su questo fra l’altro il libro si chiude. Dolenti in altri casi: come la critica all’immaginario del «24 ore senza di noi» (dunque “lo sciopero dei migranti” proposto il primo marzo 2010) o della campagna di comunicazione pro 8×1000 alla Chiesa valdese, perlomeno per come inconsciamente esso si presenta nei manifesti, nelle immagini e nei brevi messaggi annessi. In estrema sintesi anche qui una delle critiche è che, anche all’interno di un panorama assai diverso, «i rapporti di dominio» quasi mai sono espliciti. Nella «retorica dei saperi interculturali» Baroni ha gioco facile – eppure poche e pochi sinora lo hanno fatto – ad attaccare i discorsi vuoti (lui scrive: «la scrittura sovreccitata»), la confusione, «le barzellette etniche», talvolta «il marchio coloniale originario». A mio avviso è centrale anche la critica che l’autore fa a chi insiste (con stile roboante oltretutto) nel collocare chi migra nell’area «intermedia» (dove dovrebbe costruire una nuova identità mediata con la tradizione, le sue radici) «in attesa del riconoscimento della piena cittadinanza da parte dello Stato». Ma che razza (ops) di idea può avere di sé – tento di riassumere io – chi si trova in un Paese dove vengono negati quei diritti (cittadinanza e voto in testa) che storicamente e tuttora sono giudicati fondamentali e dove le istituzioni operano un costante mobbing invece che politiche di incontro? Ha ragionissima Baroni nel ricordare più volte che tutto si riduce a un grande inganno se mai si nomina «un razzismo di Stato (Foucault)» e neppure si ipotizza «che la segregazione razziale sia funzionale alla riproduzione capitalistica (Wallerstein)». A essere pignolissimi – spesso Baroni lo è – contesterei quel «razziale»: se le razze infatti non esistono, ma il razzismo purtroppo sì, il termine «razziale» è insensato sempre, più corretto invece dire «razzista». Quanto ai professionisti dell’intercultura ma anche dell’antirazzismo buonista, il minimo che si possa dire, concordando con Baroni, è che risulta troppo comodo per costoro spiegare che quasi tutte le abituali, ripetute raffigurazioni di chi migra – «gli stranieri o sono ridotti a livello di semplice caricatura o sono inferiorizzati» – rimandano «a un razzismo involontario e incontrollato» che circola un po’ ovunque: «osservazione di buon senso che però non spiega nulla». Anche perché un po’ troppe persone – compresi coloro che si ritengono democratici e/o progressisti – evitano «l’incontro con immigrati in carne e ossa», confrontandosi con astrazioni e/o ideologie e/o pregiudizi (e questi ultimi non sono necessariamente tutti xenofobi o discriminatori ma comunque restano pre-giudizi, senza verifica). Ancora ha ragione l’autore – ma il libro lo accenna solo di sfuggita – nel giudicare insostenibile e assurdo il peso che si vuole attribuire a ogni migrante (e persino a figli/e nati in Italia) come rappresentante di culture e tradizioni, dimenticando che in primo luogo siamo di fronte a persone ed è dunque insensato che vengano nominati “ambasciatori” di popoli, storie, religioni o fantomatiche etnie. Intorno a questi nodi si trova poco – ha ragione Baroni – nella nostra letteratura ma il recente Specchi sbagliati di Brhan Tesfay ad esempio è molto chiaro e anche i testi, in parte autobiografici, di Igiaba Scego o di Gabriella Kuruvilla (per nominare solo due autrici) vanno in direzioni interessanti. Perché sorprendersi se soprattutto la grande editoria preferisce offrire rappresentazioni (o cercare auto-rappresentazioni) addolcite, addomesticate di chi migra? Non accade, da sempre, lo stesso con gli altri e le altre che – per motivi politici, sociali o di altro tipo – vengono escluse/i da chi detiene il potere? Credo che da questo riassunto siano evidenti i pregi del libro e la ricchezza della documentazione: fra i molti libri e film citati da Baroni mi pare particolarmente interessante il rimando a Venere nera (del 2010) di Abdellatif Kechiche, non a caso passato in Italia praticamente sotto silenzio. Qualcuno dei miei disaccordi? Non avrei liquidato così frettolosamente né l’etno-psichiatria e in particolare Tobie Nathan né, per restare in Italia, gli scritti di Kossi Komla-Ebri. Ma soprattutto c’è un punto, nel terzo capitolo, dove Baroni a mio avviso banalizza troppo. Quando ironizza su chi pontifica che «una volta scritta la propria storia le immigrate starebbe

ro meglio. Il motivo non è chiaro». Più avanti: «chiedere all’immigrato di raccontare il proprio passato perciò significa domandargli di testimoniare la sua passata afflizione». Eppure nei casi specifici esaminati da Baroni in questi due passaggi, come più in generale, a me pare che le scritture autobiografiche, il fare i conti con le proprie storie, possano essere molto importanti e non bastano alcuni esempi negativi (o ingabbiati dentro le suddette retoriche) per negarlo. Egualmente: prendere una delle frasi con cui, ad esempio, «El ghibli» (rivista on line «dedicata alla letteratura della migrazione») si presenta e isolarla dal contesto, sentenziando che «l’intento è meritorio ma le modalità con cui viene perseguito» mi pare frettoloso e poco utile dentro un testo che invece sceglie di non fermarsi alla superficie. Resto convinto che Contro l’intercultura farà incazzare molte e molti. E mi spiace perché impedirà di fare i conti con i problemi posti. Mi è venuto spontaneo leggendolo paragonare questo libro con Dizionario critico delle nuove guerre, scritto anni fa da Marco Deriu (per la Emi). L’argomento evidentemente è diverso ma credo che in comune possa esserci il “rigetto”. Molti pacifisti si arrabbiarono con Deriu perché il suo discorso di fondo – la guerra è un “fatto sociale totale” e noi siamo immersi nel suo immaginario come nelle sue regole – faceva risultare vano, persino consolatorio, il loro quotidiano impegno. Le ultime pagine del testo di Deriu si intitolavano “per continuare a pensare”. Qui a mio avviso sta la somiglianza: abbiamo smesso di pensare sul nucleare o sulla Borsa, sulla catena produttiva-distributiva del cibo e su Libia o Siria, sulla scuola dei nostri tempi o sulla dittatura del petrolierato, sul perché il gangsterismo cresce nelle istituzioni democratiche e sulla tirannia delle banche, sulla quantità di droghe (più o meno legali) che garantiscono il ciclo lavora-consuma-crepa oppure su… «mirmema». Abbiamo smesso di ragionare davvero e ci adattiamo (spesso) a un generico buonismo. Su intercultura e dintorni Baroni ci invita a cambiar rotta. Talvolta lo fa in modo sgradevole o prolisso, su alcune (o molte) questioni si può dissentire: ma al fondo ha ragione. Persino chi tenta “buone pratiche” ha quasi sempre un orizzonte politico limitato al domattina e dominato dall’agenda (e dalle informazioni) che i poteri dettano. Così si vivacchia, costruendo – e tanto meno sovvertendo – ben poco di quel che servirebbe. Impossibile concludere. La frase finale dell’introduzione di Baroni è secca: «al fondo resta la paura dell’altro e dello straniero, a malapena dissimulata dal linguaggio politically correct che esso (il discorso interculturale) adotta». La citazione d’apertura (di Frantz Fanon) ci ricorda: «Il negro non esiste. Non più del bianco». Sempre da qui toccherà ripartire.

Daniele Barbieri