Diritto d'asilo

Porte sbarrate

- 28 Luglio 2013

Ecco perché con Dublino 3 cambia poco o nulla per chi chiede protezione umanitaria. L’Europa non vuole abdicare al titolo di “fortezza”. L’analisi di Fulvio Vassallo Paleologo.

Il Regolamento (Ue) n. 604/2013 del 26 giugno 2013, che stabilisce i criteri e i meccanismi di determinazione dello Stato membro competente per l’esame di una domanda di protezione internazionale presentata in uno degli Stati membri da un cittadino di un paese terzo o da un apolide, pubblicato nella Gazzetta dell’Unione Europea del 29 giugno 2013 sarà applicato solo a partire dal 1° gennaio 2014 e tempi ancora più lunghi sono previsti per il nuovo Regolamento sul sistema Eurodac per il rilievo e la conservazione delle impronte digitali dei richiedenti asilo, e per le due Direttive approvate sempre il 26 giugno scorso, sulle nuove qualifiche e sulle procedure per il riconoscimento della protezione internazionale che saranno applicabili con l’attuazione da parte degli stati, le Direttive, entro il 20 luglio 2015.
Se l’impatto delle nuove normative dell’Unione Europea in materia di protezione internazionale è tanto procrastinato nel tempo, sembra confermato da subito, e per certi aspetti rinforzato, malgrado alcune garanzie procedurali, l’atteggiamento di chiusura nei confronti di quanti fuggono verso l’Europa in cerca di protezione. Procedono soltanto, con la più totale mancanza di trasparenza le attività delle autorità di polizia e dei ministeri dell’interno per rendere operativo l’Easo/Regolamento Ue n° 439/2010), l’ennesimo organo burocratico che dovrebbe realizzare un sistema unico dell’asilo a livello europeo, una aspirazione propugnata dai tempi del Consiglio Europeo di Tampere nel 1999, che si è infranta però sulla ostinata volontà degli stati di mantenere la piena sovranità sulle decisioni di ammissione al territorio, e dunque alle procedure di protezione internazionale, o di respingimento.

Mentre la situazione nei paesi di transito, e di origine, appare in rapida degenerazione, verso una violenza generalizzata che colpisce soprattutto i potenziali richiedenti asilo, e tra questi i soggetti più vulnerabili come le donne ed i minori non accompagnati, l’unica via che rimane a costoro sembra quella dell’ingresso irregolare, anche quando hanno già ottenuto, o potrebbero ottenere nei paesi di transito il riconoscimento dello status di rifugiati. Mentre l’Europa si dava nuove procedure sulle regole di ripartizione delle domande di asilo e sulla schedatura indiscriminata dei richiedenti asilo, in nome di esigenze di lotta al terrorismo che vanno ben oltre il problema della competenza nell’esame delle domande di asilo, nessuno stato europeo ha saputo fornire una risposta nei confronti dei potenziali richiedenti asilo confinati nel campo di Choucha in Tunisia, o detenuti nei lager per migranti che in Libia bloccano alcune migliaia di persone, o imprigionati dalle bande di predoni e trafficanti che controllano i passaggi nel deserto del Sinai in Egitto.

Di certo il Regolamento Dublino III n. 604/2013 introduce la possibilità di trattenere il richiedente ai fini del trasferimento, nelle modalità previste dall’art. 28, nel caso di pericolo di fuga, una ipotesi eccessivamente generica che rischia di legittimare tutte le prassi di polizia, come il trattenimento in centri informali, già applicate contro i richiedenti protezione internazionale subito dopo lo sbarco o l’ingresso irregolare nel territorio dello stato. Un’arretramento oggettivo, se pensiamo che la Convenzione di Ginevra vietava la detenzione dei richiedenti asilo, anche se termini per la procedura di presa o ripresa in carico sono ridotti: un mese per la presentazione della domanda e due settimane per la risposta. Una volta scaduto il termine per la presentazione della domanda o quello del trasferimento in un altro stato competente, il trattenimento rimane comunque privo di una giustificazione legale e deve cessare immediatamente…

In questo quadro anche le innovazioni positive sul piano procedurale rischiano di essere assorbite da applicazioni assai discrezionali da parte delle autorità di polizia. Così, ad esempio, la previsione che la domanda di protezione internazionale si consideri presentata non appena le autorità competenti dello Stato membro interessato ricevono un formulario presentato dal richiedente o un verbale redatto dalle autorità e ancora la possibilità che nel caso di domanda non scritta, il periodo che intercorre dalla dichiarazione di volontà e la stesura del relativo verbale “deve essere quanto più breve possibile”, rischia di restare inattuata per la spinta crescente dei richiedenti asilo a sfuggire nella clandestinità per non restare ingabbiati in paesi che non garantiscono comunque e non garantiranno ancora per lungo tempo una procedura equa ed un sistema di accoglienza capillarmente diffuso sul territorio e capace di produrre integrazione. Ed effetti assai limitati rischia di avere anche il riconoscimento dell’effetto sospensivo del ricorso contro i dinieghi, una richiesta avanzata da tempo dalle associazioni, dal momento che sempre più spesso, anche dopo la proposizione di un ricorso, i richiedenti asilo denegati tendono a fare perdere le proprie tracce non avendo più alcuna fiducia nell’equità delle procedure che li hanno riguardati e nella possibilità effettiva di esercitare i diritti di difesa.

Non solo l’unica via di ingresso in Europa rimane quella dell’attraversamento della frontiera in clandestinità, anche a costo della vita, ma si continua, e si continuerà ancora in futuro, a permettere che le organizzazioni criminali siano loro a “riprendere in carico” i migranti, o per ottenere il pagamento dei residui debiti contratti per l’ingresso irregolare, o per consentire un passaggio verso un paese europeo che garantisca standard di accoglienza più elevati e procedure più eque. Le norme apparentemente più favorevoli nei confronti delle famiglie o dei minori non accompagnati non garantiscono che queste persone siano effettivamente dotate degli strumenti e delle misure di accoglienza per sottrarsi al condizionamento delle organizzazioni criminali. Gli opuscoli informativi o la formazione mirata delle guardie di frontiera sono adottati da anni con i risultati che sono sotto gli occhi di tutti.

Dalle nuove direttive e dai nuovi regolamenti in materia di protezione internazionale la prima impressione che si ricava è che l’Unione Europea, alla vigilia di importanti scadenze elettorali nei paesi chiave come la Germania, continui a ritenere i richiedenti protezione internazionale come un pericolo dal quale difendersi, con un intreccio sempre più evidente con le misure antiterrorismo (soprattutto evidente nel nuovo regolamento Eurodac), senza garantire quelle risorse economiche che potrebbero elevare gli standard di accoglienza nei paesi più esposti, come la Grecia, l’Italia e la Spagna, oltre naturalmente Malta e Cipro.
Non si rimettono in discussione gli accordi bilaterali di respingimento o di collaborazione tra le forze di polizia, che possono eseguire i respingimenti che le normative europee tentano di evitare richiamando il principio di non refoulement, già sancito con scarsi risultati, alla prova dei fatti, dalla Convenzione di Ginevra del 1951 (art. 33), non si aprono corridoi umanitari, come sarebbe sempre più urgente, soprattutto dal Sinai e dalla Libia. Non si offrono alternative concretamente praticabili all’ingresso irregolare, all’attraversamento del mare o al tentativo di entrare clandestinamente nascondendosi all’interno di un aereo o sotto un camion imbarcato in un traghetto. Tentativi nel corso dei quali ancora di recente molti migranti hanno perso la vita…
Una responsabilità che non si può scaricare solo sugli scafisti, come alcune procure, soprattutto in Sicilia, continuano a fare, ma che andrebbero individuate anche nei decisori politici e nelle forze di polizia che continuano a mantenere un regime proibizionistico che alla fine, oltre a costare un numero ingente di vite umane, arricchisce quelle stesse organizzazioni criminali che tutti a parole vorrebbero combattere. E, se vogliamo dirla proprio tutta, questa costrizione alla clandestinità, frutto delle politiche repressive e della mancanza di strumenti reali di integrazione, potrebbe proprio favorire le componenti più legate all’integralismo religioso ed accrescerne a dismisura le capacità di reclutamento.

Fulvio Vassallo Paleologo
Università di Palermo