Argentina

Frontiere (quasi) aperte

- 1 Settembre 2013

Cosa succede quando uno Stato riconosce la mobilità come un diritto? Quali sono gli effetti reali di una politica più inclusiva? Intervista all’antropologo Alejandro Grimson.

E se in Italia facessimo entrare tutti, sai che cosa succederebbe? Già, che cosa succederebbe? Perché quando la domanda rimbalza dal bar ai talk show e viceversa nessuno si prende la briga di rispondere. I dati statistici dimostrano che, con la crisi, gli ingressi sono diminuiti (attorno al 10 per cento in meno all’anno) e i flussi in uscita aumentati (20 per cento nel 2012). Ma facciamo finta che l’Italia continui a essere un paese ricco di attrattive per i lavoratori stranieri. Cosa succederebbe con una politica migratoria più inclusiva? Una risposta, sebbene parziale, può arrivarci dall’Argentina, paese che dal 2004 considera quello a emigrare un diritto umano. Ne abbiamo parlato con Alejandro Grimson, antropologo, decano dell’Università nazionale San Martín e autore di vari saggi, tra cui Mitomanías (Siglo XXI), dedicato agli stereotipi e alle idiosincrasie degli argentini.

Com’è cambiata la politica migratoria di questi anni?
La svolta si è verificata nel 2004. L’immigrazione dall’Europa si era conclusa negli anni ‘60, quando è iniziata quella dai paesi vicini (soprattutto Bolivia, Perù e Paraguay). Non più auspicata, ma vissuta come una minaccia alla sicurezza. Le politiche migratorie sono state il riflesso della politica generale. Le dittature deportavano, i governi democratici prevedevano sanatorie per regolarizzare chi già era presente, senza però nessun cambiamento strutturale a livello legislativo. Negli anni ‘90, con il trionfo del neoliberismo, la massiccia disoccupazione ha provocato un aumento generale della criminalità, influenzando l’atteggiamento nei confronti degli immigrati. Finalmente nel 2004, con il consenso di tutti i partiti, è stata approvata una nuova legge che iscrive l’immigrazione nel paradigma dei diritti umani. Se decidere dove si vuole vivere è un diritto, allora gli immigrati sono persone portatrici di diritti, a cominciare dall’accesso alle cure mediche e all’istruzione.
Questo cambiamento è stato metabolizzato senza conflitti dalla società?
Ovviamente no. Il cambio di scenario ha alimentato dibattiti e miti, come quello delle masse di stranieri che vengono ad approfittare della sanità e delle scuole pubbliche a spese degli argentini. Tutto questo non si è verificato. Flussi migratori dai paesi vicini ci sono sempre stati e non sono aumentati negli ultimi 10 anni. In tutti i censimenti, la popolazione proveniente dai paesi limitrofi si attesta tra il 2 e il 3 per cento.
E allora, come si costruisce lo stereotipo dell’invasione di persone “che non dovrebbero stare qui” perché rubano il lavoro agli argentini o delinquono?
Prima di tutto, negli ultimi 20 anni, si è verificata una concentrazione degli immigrati nelle grande città, dove diventano più visibili, da cui la percezione che siano aumentati. Secondo, assistiamo a processi di “razzializazzione”. I figli di genitori boliviani, anche se nati in Argentina – dove vige lo ius soli – continuano a essere percepiti come stranieri, sebbene siano cittadini a tutti gli effetti. Esiste poi un forte problema di razzismo interno, di discriminazione nei confronti delle popolazioni native, che passa attraverso la negazione della nostra parte indigena. Il mito della nazione argentina si è costruito sull’immigrazione dall’Europa a partire dal 19° secolo. Il 50 per cento della popolazione tiene ascendenze indigene, ma l’europeismo ha organizzato l’immaginario culturale egemonico, dal momento che le classi dirigenti sono “più bianche”.
Cosa prevede la legge attuale?
Garantisce i diritti dei residenti, regolari e no. Che significa accesso totale alla sanità pubblica e all’educazione pubblica. Le scuole sono obbligate ad accettare i bambini a qualsiasi grado di istruzione.
La politica può, secondo lei, introdurre “forzature” come queste, senza aspettare che la società civile “sia pronta” a recepirle?
La politica ha il dovere di garantire i diritti umani. Tuttavia, nella Dichiarazione universale dei diritti umani non è contemplato quello a migrare. E allora che si fa? Duecento anni fa la schiavitù era considerata normale, naturalizzata, oggi non più grazie a lotte civili e politiche. La battaglia ora si è spostata sul diritto a migrare. A livello culturale dobbiamo combattere contro la disumanizzazione dell’immigrato, contro l’idea che se è entrato illegalmente in un paese sia un problema suo e non delle relazioni mondiali.
Un tema caldo è quello legato alla criminalità.
Guardiamo i dati. È vero che gli stranieri commettono più reati? In Argentina, se considerassimo le statistiche sugli arresti la risposta sarebbe sì, se ci basiamo sulle condanne la risposta è no. Insomma, i dati dimostrano semmai che ci sono poliziotti razzisti, più che tanti immigrati delinquenti. Ma la risposta deve essere politica anche in questo caso. Chiediamoci se gli agenti ricevono una formazione adeguata a lavorare in una società multietnica e se il nostro stato vuole davvero costruire istituzioni aperte all’eterogeneità.
Le leggi aiutano?
Sì. La matrice razzista è un’aggravante in caso di crimini contro le persone. E la stessa aggressione verbale viene punita come un reato minore, con il pagamento di una multa e un periodo di lavoro sociale o l’obbligo a frequentare un corso di formazione.
Cosa manca ancora?
Un riforma dell’educazione, una politica della comunicazione che chiarisca una volta per tutte che gli esseri umani sono uguali, ma che alcuni sono più deboli e per questo meritano una protezione supplementare transitoria, fino a quando non si troveranno in una situazione di parità con gli altri. Serve l’impegno del cinema, dell’arte, della televisione perché esista un discorso pubblico su questi temi, che non sia l’unico, ma che almeno esista, perché possa realizzarsi tutta la potenza democratizzatrice della nostra società.

Francesca Capelli