Visioni

Il Caucaso a Locarno

- 1 Settembre 2013

Si è da poco conclusa la 66ma edizione del Festival di Locarno, con la direzione di Carlo Chatrian, che si conferma come una manifestazione che, attraverso il cinema, indaga e riflette sull’attualità. Molti i film interessanti presentati nelle sezioni che ne costituiscono il ricco programma, ma in questo primo articolo dedicato al festival, vogliamo segnalare alcune opere che hanno partecipato alla sezione “Open doors” dedicata, quest’anno – dopo l’Africa nel 2012 e l’India nel 2011 – alla regione del Caucaso del sud.
Con il sostegno della direzione dello sviluppo e della cooperazione (DSC) del Dipartimento federale degli affari esteri, il laboratorio di coproduzione – che si è svolto nella cittadina svizzera dal 10 al 13 agosto – ha messo in contatto registi, produttori e partner, soprattutto europei, per ottenere il finanziamento necessario alla realizzazione dei progetti cinematografici migliori.
Tra questi, segnaliamo tre opere che hanno ottenuto il sostegno economico per l’importanza degli argomenti trattati e per l’originalità delle scelte stilistiche.
See you in Chechnya di Alexander Kvatashidze: “Quando avevo 22 anni sono andato in guerra. E ho preso la mia macchina fotografica. Ma non sono andato perchè volevo fare una carriera di giornalista o di regista. Sono andato perchè ero innamorato”. Queste le parole del regista che, nel 1999, incontra nel suo Paese, la Georgia, una fotografa, Françoise, che si stava recando a riprendere la guerra in Cecenia. Parte con lei e, da quel momento, non smette di rimanere in contatto con i reporters, quegli idealisti coraggiosi e avventurieri eccentrici che rischiano la propria vita pur di raccontare la verità. Un omaggio a chi cerca di fare informazione in maniera onesta stando dentro la Storia anche quando la situazione si fa sempre più difficile.
Mobili coperti, un orologio fermo, una bara nel salotto: scena di un funerale tradizionale ortodosso. Oksana Mirzoyan, dall’Armenia, con il suo Abysm ci accompagna nell’elaborazione di un lutto all’interno di una piccola famiglia. Una madre e una figlia hanno perso il loro figlio/fratello mentre prestava servizio militare nell’esercito, nel territorio di confine tra Armenia e Azerbaigian. Lunghi silenzi segnano la quotidianità delle due donne, rimaste sole e forzatamente unite dopo la perdita del loro caro: la ragazza ha come unica via di fuga – emotiva e psicologica – il suo talento per la scrittura. Cerca di dare un senso, attraverso la creatività, alle contraddizioni di un Paese dilaniato dove, da anni, si impongono il pericolo e la paura.
Anche Madona, la protagonista dell’omonimo documentario, cerca un significato per la propria esistenza, o meglio lei lo avrebbe già trovato. Siamo ancora in Georgia e la regista, Nino Gogua, segue con attenzione e rispetto la vita di Madona, una donna di 55 anni, unica autista di autobus nel suo Paese. Vive in un monolocale con la madre e la gente le dice: “ Lei ha un figlio, non una figlia”. Sul luogo di lavoro, Madona ha una piccola stanza in un vecchio edificio amministrativo del servizio tram, sistema tutto (anche in casa) con le sue mani, lavora duro per risparmiare. Vuole migliorare il proprio ambiente di lavoro e anche il suo appartamento nonostante, a soli 50 metri di distanza,stiano costruendo una nuova linea ferroviaria che rende la sua esistenza e quella dei suoi vicini sempre più precaria. Se le loro case saranno abolite dove andranno?
Madona lotta giorno dopo giorno per custodire quel poco che ha e, soprattutto, per rivendicare la sua capacità di essere come, o addirittura meglio, di un uomo contro la stigmatizzazione e le privazioni di una cultura conservatrice e maschilista.

Alessandra Montesanto
Peridirittiumani.org