Letture meticce

Taiye must go

- 1 Settembre 2013

L’autrice di La bellezza delle cose fragili ospite, a Festivaletteratura di Mantova. Uno straordinario talento “afropolitan”.

Nata a Londra da genitori africani (lui ghanese, lei nigeriana), cresciuta negli Usa, studi tra Yale e Oxford, oggi Taiye Selasi, 33 anni, vive a Roma. Quest’anno la rivista Granta l’ha inserita tra i 10 migliori scrittori inglesi. Nel 2005, sulla rivista online The Lip Magazine, firmò un articolo in cui parlava di quelli come lei: gli “afropolitan”, giovani donne e uomini che sentono di appartenere alla cultura dei genitori così come alle metropoli occidentali nelle quali vivono. «“Casa” per queste persone è molte cose: da dove provengono i genitori; dove loro vanno in vacanza; dove hanno frequentato le scuole; dove incontrano i vecchi amici; dove vivono (o meglio, dove vivono quest’anno). Come molti giovani africani che lavorano e abitano in varie città intorno al mondo, non appartengono a un singolo luogo geografico, ma si sentono a casa in molti». E questo suo primo, bellissimo e poetico romanzo, che ha ricevuto la benedizione di Salman Rushdie e Toni Morrison (oltre che di Teju Cole, afropolitan anche lui), racconta di questi ragazzi cresciuti a metà tra due culture. Ma non solo.

Ghana must go (in uscita per Einaudi il 3 settembre con il titolo La bellezza delle cose fragili) è una grande saga familiare che si snoda tra due continenti, l’Africa e l’America. Comincia con la morte, in Ghana, del padre Kweku. Da questa scena, dal momento in cui questo medico 57enne, scalzo, cade riverso sull’erba bagnata di rugiada mattutina, mentre la nuova moglie Ama dorme (Ama, nella quale lui scorgeva tracce sia della figlia Taiwo “prodotto degli Usa”, sia della madre “prodotto dell’Africa”: un “ponte”, la sintesi tra i due mondi cercata per tutta la vita) l’autrice ricostruisce un complesso mosaico familiare.

Kweku ha abbandonato la famiglia 16 anni prima: la amatissima moglie Fola e 4 figli. Il primogenito Olu, i gemelli Taiwo e Kehinde (i cui nomi, in yoruba, significano rispettivamente “primo gemello” e “secondo gemello”) e la piccola Sadie, nata prematura, strappata alla morte dal padre e accudita come un fiore troppo delicato dalla madre. Sull’assenza del padre i ragazzi hanno costruito la loro incerta identità: Olu ne ha ripercorso i passi, diventando medico. I gemelli, legatissimi tra loro, sono cresciuti ri-raccontandosi gli eventi familiari come fossero scene di un film, cancellando da ciascun fotogramma la figura paterna. Sadie ricorda pochissimo di lui e cresce nell’adorazione dell’amica Philae, bianca e bionda, con una famiglia ricca, unita e perfetta.

Taiye Selasi costruisce il romanzo viaggiando tra passato e presente, facendo intuire segreti familiari (a partire dal primo, il più importante: perché il padre li abbandonò) e svelandoli via via che la narrazione procede, aggiungendo frammenti e dettagli. Rivelare ciascuno dei fili che compongono la complessa trama che l’autrice magistralmente ricama, sarebbe un delitto e toglierebbe il piacere della lettura. Quello cui si può accennare, però, e che costituisce un elemento importante del libro e della poetica di Selasi, è il modo in cui ciascuno dei protagonisti convive con la propria doppia identità: cittadini statunitensi e immigrati africani.
Olu sposa una collega cinese, Ling. Insieme sono “l’immagine della perfezione dei nuovi immigrati”: professionalmente e socialmente affermati, rappresentanti del mitico melting pot statunitense. Eppure, durante una conversazione con il padre di Ling, questi non si trattiene dal mostrare diffidenza verso il fidanzato (poi marito) della figlia: «Perché l’Africa è così indietro, se esistono così tanti africani in gamba? Credo sia perché manca il rispetto per la famiglia». Olu all’inizio non sa cosa rispondere, gelato dalle accuse che percepisce riferite a suo padre, poi con uno scatto di orgoglio si trova a difenderlo (lui che non lo vede da anni), reclamando con fierezza di somigliargli. La bellissima Taiwo, carnagione scura e occhi chiari ereditati dalla nonna scozzese, parla al suo amante dei dreadlocks che porta, definendoli “capelli da ragazza bianco/nera”. Una sorta di risposta, da parte delle afroamericane, al desiderio di esibire, al pari delle americane bianche, svolazzanti code di cavallo. Sadie, riflettendo sulla condizione propria e di molti compagni di scuola africani, latinoamericani e asiatici, trova che tutti gli immigrati “portino una patina di bianchitudine”. Sono “etnicamente eterogenei, ma culturalmente omogenei, per via dell’esposizione, dell’osmosi, dell’adolescenza”. Un fatto che lei accetta senza angoscia, come “il prezzo per l’ammissione” a un contesto cui desidera appartenere.

Segnata da quel peccato originale, il misterioso abbandono del padre, e dai drammi (pratici ed emotivi) che ne conseguono, la famiglia Sai sembra non avere risorse per resistere alla disgregazione: nel corso degli anni i figli allentano i legami tra di loro e con la madre. Ma in realtà, l’amore che ha posto le basi di questo nucleo continua a pulsare sottotraccia, immutato nella sua forza. Così, quando Kweku muore, i quattro ragazzi partono per il Ghana, dove anche la madre si è nel frattempo trasferita, per il funerale. E arriva il tempo del ricongiungimento, delle confessioni, della guarigione. Il tempo, per questi “afropolitan”, di ritrovare, nel continente che custodisce le loro radici, l’unità familiare e il senso stesso dell’esistenza.

Gabriella Grasso

Taiye Selasi sarà ospite al Festivaletteratura di Mantova sabato 7 settembre alle ore 21.