Relazioni pericolose

Gdo e caporalato

- 2 Settembre 2013

Agricoltori e braccianti stretti nella morsa della grande distribuzione. I numeri e i dati che ci aiutano a capire questo intreccio. Il progetto Sos Rosarno. E un pizzico di van der Ploeg.

L’Italia rimane essenzialmente un Paese agricolo, ma in Italia l’agricoltura non sta bene. Si calcola che oggi siano a rischio 920.000 aziende agricole su 1.620.000. Oltre 700.000 sono nel mezzogiorno.

Negli ultimi quarant’anni in Italia si è ridotta di un terzo la Sau (Superficie agricola utilizzata), con un corrispondente galoppante aumento nella concentrazione delle terre: già al 2007, secondo dati Istat, le aziende con taglia superiore ai 50 ettari coltivavano il 40% della Sau pur rappresentando solo il 2,3% del totale. Una concentrazione che ha raggiunto livelli altissimi con la riforma della Pac (politica agricola comunitaria) del 2000 – i cosiddetti aiuti disaccoppiati, ovvero pagamenti rilasciati per ettaro indipendentemente dal prodotto, in base a un calcolo storico e senza soglia. Per fortuna la nuova Pac introduce dei correttivi, ad esempio indicando una soglia, ma non modifica l’orientamento di base a favore dell’agroindustria.

È così che i piccoli agricoltori rimangono strozzati dall’abbassarsi dei prezzi alla fonte, a tutto vantaggio di grandi proprietari, commercianti intermediari (spesso legati alla criminalità organizzata) e Gdo, Grande distribuzione organizzata: questi soggetti sulle grandi quantità realizzano economia di scala, rastrellando terre e prodotto.

In Calabria negli ultimi 20 anni, hanno cessato di esistere 16.000 aziende agrumicole. Nel 1995 per ogni ettaro si producevano 300 quintali a 500 lire al Kg, per un utile di 10.000.000 di lire. Quindici anni dopo,  nel 2010, per ogni ettaro si producevano 400 quintali a 0,15 €/Kg per un utile di 2.000 euro. La situazione negli ultimi due anni è sensibilmente peggiorata. Il prezzo sull’albero delle arance da tavola oscilla da un minimo di 15 cent al Kg a un massimo di 20, per arrivare a un prezzo di vendita che oscilla tra gli 80 cent e 1,45 e a volte molto oltre (e non parliamo dei prodotti bio, ma di quelli da agricoltura convenzionale). Per le arance da industria le cose vanno molto peggio. Come denuncia anche la Coldiretti, 1 litro di aranciata contenente il 12% di succo naturale “contiene” arance per il valore di appena 3 centesimi, ma è venduta mediamente a  1,30 € al litro. All’agricoltore le arance vengono in sostanza pagate tra i 6 e gli 8 centesimi per chilo. Ma a volte si scende a 3 centesimi.

La Coldiretti ci informa che, per ogni euro speso dai consumatori per l’acquisto di alimenti, oltre la metà (il 60%) va alla distribuzione commerciale, il 23% all’industria di trasformazione e solo il 17% all’agricoltore. Negli ultimi decenni si è infatti assistito ad un processo di concentrazione lungo tutta la filiera agricola. Un processo guidato dai colossi della Grande distribuzione organizzata che, come è noto, ormai gestiscono anche la trasformazione con marchi propri e di fatto governano tutta la filiera agroindustriale, dai campi ai banchi dei supermercati. Si calcola che, nel 2005, in 17 paesi europei la quota di mercato detenuta dalle cinque principali catene di supermercati si attestava sopra il 50%. Nel 2004, il 60% delle vendite di fresco in Francia, Germania e Olanda erano controllati dalla Gdo.

Oggi in Italia circa il 70-80% dei consumi nell’alimentare viene assorbito dalla Gdo, ma rimane circa un 27% di vendita ad appannaggio di esercizi minori. E questo, nel panorama europeo, rappresenta un’anomalia: in Francia e Germania è appena il 4%, in Spagna e Regno Unito il 20. Nella classifica nazionale, è la Coop ad accaparrarsi la quota principale, col 16,1% (dati de  Il sole 24 ore). Seguono a distanza Conad, Selex, Auchan, Esselunga, Carrefour. Scriveva Marx che “i bassi prezzi sono l’artiglieria pesante del grande capitale”. Per poter ottenere prezzi imbattibili mantenendo alti tassi di profitto, la Gdo esercita il suo buying power imponendo bassissimi prezzi alla fonte e realizza sulla quantità economie di scala. Non c’è da stupirsi dunque che organizzazioni come la Coldiretti denuncino ormai da anni questa situazione. Salvo però il fatto che le stesse dimenticano sempre di menzionare le vittime principali di questo circuito infernale: i braccianti immigrati, siano subsahariani, maghrebini, bulgari o rumeni, taglieggiati dai caporali e ridotti in una simil schiavitù. Perché, per fare quadrare i conti, alla fine è sempre su di loro che si taglia: sulle loro paghe, sulla sicurezza, sulla dignità. E qui il cerchio si chiude.

Ma c’è ancora una possibilità. A Rosarno e in altri paesi della piana di Gioia Tauro un gruppo di contadini convertiti al biologico si sono messi insieme all’interno dell’associazione EquoSud e, con la collaborazione dell’associazione multietnica Africalabria, uomini e donne senza frontiere, per la fraternità hanno dato vita al progetto Sos Rosarno (www.equosud.org). Da due anni, giovandosi della rete nazionale dei gruppi di acquisto solidali, hanno cominciato a produrre olio e agrumi senza avvelenare la terra e garantendo assunzione e condizioni di vita e di lavoro degne ai lavoratori immigrati assunti, destinando inoltre una quota dei ricavi ad attività di solidarietà. A saldo della seconda stagione, esprimono grande soddisfazione sugli esiti raggiunti finora «per merito di quanti ci hanno accordato fiducia e sostegno, consentendo al nostro gruppo di consolidarsi fino a diventare una piccola comunità di contadini e braccianti che di giorno coltivano insieme nei campi un sogno e la notte vanno in giro ad ungere i paesi col virus della convivialità solidale, a manifestare a tutti e tutte il segreto di quanto è più bello in questo modo stare al mondo».

A Rosarno dunque si sperimenta, nel piccolo, un’alternativa valida per il mondo. Perché proprio nel piccolo è la chiave di un futuro diverso. Nel libro I nuovi contadini, Jan Douwe van der Ploeg, docente di Sociologia Rurale presso l’università di Wagenigen, nei Paesi Bassi, scrive: «La mia tesi è che l’ascesa dell’Impero, in quanto principio ordinatore che gestisce, in modo sempre crescente, la produzione, la trasformazione, la distribuzione e il consumo degli alimenti, contribuisce al progredire di ciò che appare come una crisi agricola mondiale e inevitabile. Ciò accade perché l’Impero avanza grazie a un pesante sfruttamento ecologico e socioeconomico o addirittura attraverso una vera e propria degradazione della natura, del lavoro agricolo, del cibo e della cultura. L’industrializzazione comporta la distruzione del capitale ecologico, sociale e culturale. Inoltre, le modalità di produzione e di organizzazione introdotte si rivelano estremamente fragili e scarsamente adeguate a fronteggiare le condizioni insite nella globalizzazione e nella liberalizzazione… Ritengo pertanto che soltanto una diffusa e possibilmente rinnovata forma di ricontadinizzazione possa porre rimedio e scongiurare questa crisi internazionale e multidimensionale».  Noi siamo d’accordo con lui.

Osservatorio Africalabria

 

Articolo già uscito su Corriere Immigrazione