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Settembre, andiamo…

- 8 Settembre 2013

È tempo di tornare a scuola. Anche per 830 mila alunni di origine straniera. I problemi aperti e le novità.

Qualcosa si comincia a muovere nel mondo scolastico, per alunni e studenti nati o cresciuti in Italia. Qualcosa si muove in particolare per i Nai (Nuovi Arrivati in Italia), ovvero quelli che con più fatica si inseriscono nel percorso di istruzione e formazione. Ne parliamo con Vinicio Ongini, autore tra l’altro di Noi Domani, un viaggio nella scuola multiculturale, uscito per Laterza nel 2011 e che lavora alla Direzione Generale per lo Studente, Miur. (Ministero dell’Istruzione, Università e Ricerca). Dopo aver insegnato fino al 1986, Ongini ha iniziato a lavorare al ministero divenendo un punto di riferimento per chi si occupa di intercultura. In questi giorni è impegnato nell’organizzazione del seminario nazionale Prove di Futuro che si terrà a Piacenza il 13 e 14 settembre e verterà i temi dell’integrazione, della cittadinanza e delle seconde generazioni.

«L’anno scolastico che sta per iniziare vedrà dietro i banchi delle scuole italiane almeno 830 mila ragazzi e ragazze di origine straniera. Corrispondono al 9,3% della popolazione scolastica. Negli ultimi 3 anni va registrato un rallentamento nella crescita delle presenze certamente imputabile alla crisi e che si estende in tutta l’Europa Meridionale, dove i problemi sono più evidenti. In Italia e in Grecia, ad esempio, si sta verificando un fenomeno per molti versi inatteso. Il ministero della Cultura albanese ci comunica un ritorno in Albania di numerosi adolescenti nati, cresciuti e formati in Italia. Si tratta di immigrati di ritorno che, di fatto, si ritrovano ad essere stranieri due volte. Oggi affrontano la scuola del proprio Paese di origine avendo una formazione italiana».
Le dimensioni di questo flusso andrebbero indagate con maggiore precisione. Non ci sono cifre o stime ufficiali, ma il fenomeno dà una conferma ulteriore al carattere ormai “circolare” delle migrazioni.

Parlando di studenti di origine straniera è molto importante operare una distinzione tra chi è nato in Italia o è arrivato da piccolissimo e chi è di recente immigrazione. «Anche il ministero ormai fa questa distinzione. Circa il 50% degli iscritti è nato in Italia. La percentuale sale all’80% nella scuola per l’infanzia, mentre si abbassa alle superiori. Una distribuzione diseguale che dovrebbe costituire un dato utile per chi si sta occupando delle questioni inerenti la cittadinanza. Sono insomma “quasi italiani” e quel “quasi” pesa come un macigno che dovrebbe essere preso in considerazione dalla politica. Dovendo disegnare una mappa in base ai numeri complessivi, la presenza maggiore è ovviamente in Lombardia. Ma le percentuali più alte si registrano nelle scuole dell’Emilia Romagna. Un tratto distintivo riguarda le province medio-piccole come Prato, Piacenza e Mantova ad esempio dove nelle scuole si supera il 20% di alunni e studenti non italiani, più alta che a Roma o Milano. Anche per questo abbiamo scelto di svolgere il nostro seminario proprio a Piacenza».

I Nuovi Arrivati in Italia rappresentano circa il 5% degli iscritti a scuola. «Ma sono quelli su cui bisognerebbe investire di più. In Francia gran parte degli sforzi si dedicano ai nuovi arrivati. In Italia ce ne sarebbe ancora più bisogno. Chi è arrivato da poco e soprattutto se proviene da sistemi linguistici non latini ha maggiore difficoltà. Difficoltà che emergono soprattutto per gli adolescenti. Stiamo partendo con una azione per questo segmento anche se le risorse sono poche. Si è scelta una classe, la terza media, su cui intervenire con un forte sostegno linguistico. Si prova ad intervenire perché c’è un aumento significativo dei Nai fra gli adolescenti che vorrebbero frequentare le scuole superiori. Ma per condizioni oggettive e soggettive finiscono in gran parte negli istituti tecnici e professionali. E provengono dalle classi sociali più disagiate». Ongini conferma un sistema stratificato che è rimasto inalterato negli anni. Prima a frequentare questi istituti erano soprattutto i ragazzi di borgata (nelle grandi città) e gli emigrati dal meridione. Studenti indotti a percorsi scolastici prestabiliti, non in base ad aspirazioni o competenze, ma per riflesso della gerarchia sociale.

«Se passiamo poi ad analizzare il tema degli esiti scolastici, soprattutto fra i Nai è forte il ritardo scolastico, di 1 anno o più rispetto ai propri coetanei autoctoni. Di solito 1 anno si perde nella fase dell’inserimento in una classe ma poi, se non c’è adeguato sostegno, sopravvengono anche le bocciature che sono più elevate. Eppure dovremmo guardare i percorsi positivi per imparare a risolvere i problemi. Le seconde generazioni sono molto più preparate rispetto alle prime e si avvicinano come adempimento a quelle autoctone. Interessante anche il fatto che sono soprattutto le ragazze a voler proseguire negli studi ottenendo spesso migliori risultati dei coetanei sia autoctoni che stranieri. I due scalini più difficili da affrontare sono la prima media e la prima superiore, ma del resto avviene anche fra i nostri giovani ed è successo anche a molti di noi. Si cambia sistema da un anno a un altro e si deve imparare in fretta. Se ci sono carenze linguistiche diventa difficile recuperare. In queste fasi occorrerebbero investimenti maggiori. Abbiamo deciso perciò di puntare sulla terza media perché è l’anno in cui ci sono i primi esami veri, ed è anche quello in cui si dovrebbe poter decidere del proprio futuro. Si tratta di uno snodo cruciale, da cui può dipendere il destino non solo lavorativo degli adolescenti, per questo, all’interno del nostro articolato seminario, abbiamo deciso di dedicare una sessione speciale alla cosiddetta Peer Education».
«L’idea di fondo è semplice. Soprattutto i giovani che sono giunti in Italia da poco hanno bisogno di un aiuto che non può essere fornito unicamente dall’istituzione. Quindi si stanno sperimentando pratiche in base alle quali sono i loro coetanei di prima generazione ad intervenire. Fra loro hanno un immaginario generazionale comune, ai ragazzi nati o cresciuti qui, poter guidare i propri compagni di classe alla scoperta della scuola, delle opportunità e delle difficoltà, risulta più facile. Sia perché non sussistono barriere linguistiche sia perché non ci sono le pressioni degli adulti. Proviamo insomma a far sì che i Nai vivano meglio l’impatto con un mondo nuovo e spesso incomprensibile, trovando alleati e, nelle esperienze realizzate, abbiamo riscontrato che anche i coetanei autoctoni si sentono spesso in dovere di contribuire».

Un altro elemento sembra ripercorrere quasi parallelamente il periodo delle nostre emigrazioni interne. «I genitori immigrati attribuiscono molto valore al percorso scolastico dei figli. Accade soprattutto per coloro che provengono dall’Est Europa. I genitori spingono i figli nello studio e sovente è forte il ruolo delle madri, che spesso sono arrivate in Italia con strumenti e titoli maggiori rispetto alle mamme autoctone. Questo noi lo definiamo un “sensore sociale”. Si tratta di un investimento che invece nelle famiglie italiane sta venendo meno: insomma si assegna alla scuola un valore molto più importante. Diversa, senza generalizare, la situazione per quanto attiene agli altri gruppi. Ad esempio fra i genitori di studenti cinesi emerge una forte critica al nostro sistema formativo per l’eccessiva vicinanza fra insegnanti e allievi. Secondo molti di loro gli insegnanti non debbono essere messi in discussione e una importanza enorme va data all’ordine e alla disciplina. A me è capitato di andare in Cina, nella provincia dello Zhejiang, da cui proviene gran parte dell’immigrazione cinese. Lì c’è una quantità di ore dedicate allo studio infinitamente maggiore che da noi, con lezioni anche di sera, ma si comincia alla mattina ascoltando musica e dedicando molto spazio alle arti. Non è raro trovare nelle aule, l’una accanto all’altra le immagini di Mao Tze Dong e di Maria Montessori, indicati come modelli di istruzione».

Stefano Galieni