Detenzione amministrativa

Cosa succede in Europa

- 15 Settembre 2013

Nel Regno Unito si chiamano Immigration Removal Centers (Irc), in Francia Centre de Rétention Administrative (Cra): sono gli equivalenti dei nostri Cie. Cosa li caratterizza e come (non) funzionano.

Caterina Mazza, dottore di ricerca in Scienze politiche e Relazioni internazionali a Torino, si sofferma sul tema della detenzione amministrativa in Europa. In un suo recentissimo libro, La prigione degli stranieri, appena uscito per Ediesse, opera un lavoro di  comparazione fra i sistemi operanti in diversi paesi. Di Francia e Gran Bretagna si parla soprattutto in un denso capitolo. «In questi due Paesi il ricorso alla detenzione amministrativa risale al diciannovesimo secolo e riguardava una tipologia particolare di stranieri, indesiderabili o ritenuti una minaccia per la sicurezza nazionale (sovversivi, rom, ebrei in fuga dai pogrom, persone che si erano in passato rese responsabili di reati o considerate un pericolo per la salute pubblica). Oggi è stato esteso massivamente ai cosiddetti migranti economici privi di un titolo di soggiorno. A differenza che in Italia il ricorso alle strutture di detenzione è usato però effettivamente come extrema ratio».

Prima di Schengen
«Nel Regno Unito – spiega l’autrice – si comincia con l’Alien Act del 1793, che sarà rivisto poi nel 1905, che stabilisce la possibilità di internare allo scopo di espellere, persone non gradite anche in assenza di specifico reato. Altri provvedimenti restrittivi vengono emanati immediatamente prima e dopo il primo conflitto mondiale e attribuiscono il potere di intervento al ministero dell’Interno e poi al governo. Nel 1971 viene promulgato l’Immigration Act che è ancora valido come Testo Unico in materia.
In Francia il trattenimento degli stranieri “irregolari” era praticato già dalla fine dell’Ottocento, ma la prima norma effettiva risale al 1933 quando nel codice penale, con l’articolo 120, viene introdotta la possibilità di trattenere ed espellere stranieri indesiderabili. L’articolo finisce a causa degli eventi storici di quegli anni col non essere applicato. Non esisteva comunque una legge specifica in materia, tanto è che i trattenimenti, che ripresero piede dopo la Seconda Guerra Mondiale, avvenivano in segretezza. Il tema diviene di dominio pubblico quando nel 1975 viene scoperto il centro di Arenc, presso il porto di Marsiglia, attivo dal 1964. Il dibattito non porta a rivedere il trattenimento ma ad istituzionalizzarlo e regolarizzarlo con leggi specifiche nel 1980 e nel 1981 (rispettivamente leggi “Bonnet” e “Quiestiaux”). In Germania i trattenimenti erano eseguiti dal 1938, ma in maniera molto discrezionale. Nel 1965 c’è la prima legge organica in materia di immigrazione. Con Schengen si chiedono una serie di assicurazioni che definiscano la libertà di circolazione di cittadini e merci in uno spazio sicuro. Non si danno indicazioni precise, non si chiede neanche che vengano istituiti i centri, si chiedono però meccanismi di controllo ed eventualmente di espulsione per chi non ha i titoli necessari a permanere».

Dopo Schengen
Le norme cambiano da paese a paese. Nel Regno Unito è possibile trattenere anche richiedenti asilo con le loro famiglie, minori compresi. «Ci sono due centri specifici per famiglie: lo Yearl’s wood, teatro – dalla sua istituzione ad ora – di tensioni fortissime e rivolte sedate con metodi coercitivi, e la Tinsley House, dal 2011 utilizzato per le famiglie. – specifica Caterina Mazza – Il ricorso alla detenzione amministrativa è molto utilizzato anche nei confronti di soggetti vulnerabili come i richiedenti asilo. In Gran Bretagna spesso poi, come in Germania, i detenuti immigrati, scontata la pena, restano in carcere per il periodo necessario all’identificazione, laddove questa non sia già stata fatta. Si tratta di un vero e proprio prolungamento della pena in stato di detenzione. Nei centri finiscono trattenuti molti richiedenti asilo tenendo conto che gli iter per ottenere lo status sono cambiati nel 2007. Esiste una procedura standard che dura 30 giorni e una veloce, a richiesta, che può durare 3 giorni (con possibilità di presentare appello) o 7 (senza questa possibilità). Il ministero dell’Interno fornisce poi periodicamente una lista di paesi considerati “sicuri” da cui non si può chiedere asilo.
In Francia si fa un ricorso limitato ai Cra. Si da molto spazio al rimpatrio volontario assistito (garantendo permessi temporanei di soggiorno e sostegno economico per il viaggio e per il ritorno) e le espulsioni coattive non sono molte. Da quando si riceve il decreto si hanno 30 giorni di tempo per andarsene. Se non si rispetta questo termine, o in caso di “pericolosità sociale” è previsto l’accompagnamento alla frontiera. Si applica, insomma, la Direttiva comunitaria Rimpatri 115/2008, (approvata nel parlamento Ue 5 anni fa, recepita in maniera discrezionale da ogni stato e volta a disciplinare, ragioni, modalità e presupposti per cui definire le procedure di rimpatrio di “stranieri irregolarmente presenti”. Comunque il periodo massimo di trattenimento in Francia è passato solo recentemente da 32 a 45 giorni, mentre la Direttiva citata permette di giungere fino a 18 mesi. Di fatto il periodo medio di trattenimento in Francia è di 10 giorni (contro i 51 in Italia nel 2011). Sono minori sia i costi umani che quelli economici. La percentuale dei rimpatriati si aggira intorno al 50%, come del resto in Italia e Regno Unito».

Le strutture
In Gran Bretagna gli Immigration Removal Centers (Irc), sono edifici nuovi costruiti come le carceri. Su dieci centri, tre sono a gestione pubblica, sette affidati a compagnie di sicurezza private. La vivibilità interna è ugualmente critica e i costi che impongono le compagnie di sicurezza, che gestiscono anche le carceri, sono molto elevati. Un giorno di detenzione viene a costare in media circa 120 sterline a persona. «Ma queste compagnie ormai sono gruppi di potere che influenzano il governo, le decisioni politiche e operano per aumentare i propri introiti», spiega Mazza. «Unico strumento di controllo sono due associazioni indipendenti di volontariato che producono numerose testimonianze e assistono legalmente i detenuti. Il controllo influisce in maniera decisiva. Nel biennio 2009/2010 lo Stato ha dovuto pagare 12 milioni di sterline come risarcimento per detenzione illegittima».
In Francia la situazione è diversa. «Intanto i Centres de Rétention Admministrative sono piccoli, accolgono in media 60 persone. Dipendono, come avviene per i Cie, dalle prefetture ma sono gestiti in maniera diversa: o dalla polizia nazionale o dalla gendarmerie. Il direttore è nominato dalle forze dell’ordine ed è un agente. Le regole di gestione sono però generiche e lasciano spazio a molta discrezionalità – prosegue Mazza – Gli operatori sono dipendenti dall’Office Français de l’Immigration et de l’Integration (Ofii), un ente pubblico che organizza tutti i centri. Esiste un servizio di assistenza psicologica e sociale gestito dall’Omi (Office des Migrations Internationales). Servizi legali e possibilità di far valere i propri diritti sono garantiti da La Cimade (Comitè intermouviments pour l’aide déplacés et evacues: si tratta di una organizzazione umanitaria, fondata nel 1939 e formata principalmente da esperti del diritto, che dal 1995 ha assunto il compito di sostenere le persone trattenute nei Cra. Dal 1 gennaio 2010, il ministero dell’Immigrazione (istituito nel 2007) ha compresso di molto il ruolo de La Cimade, restringendo il suo campo d’azione a Parigi e alla Francia del sud ovest. Negli altri Cra sono entrate altre associazioni del privato sociale e la qualità del servizio legale ne ha risentito». Per quanto riguarda l’assistenza sanitaria, le prefetture stipulano convenzioni con gli Enti Locali. Spesso però questi accordi sono lacunosi e talvolta non vengono rispettati. Capita, per esempio, che non ci sia una visita sanitaria all’ingresso o che questa avvenga solo alla presenza di un ufficiale delle forze dell’ordine, visto che questi sono sempre presenti nei centri. Come in Italia anche in Francia la Corte dei Conti non riesce a conoscere le effettive voci di spesa e quindi a controllare le risorse impiegate.

Analogie
Tra Regno Unito, Francia, ma anche Germania e Italia, le differenze sono parecchie ma sussistono anche molte analogie. «Intanto ci sono identiche problematiche relazionali fra i trattenuti: risse, autolesionismo, frustrazione e tutte quelle situazioni che vengono elencate quando si parla dell’insostenibilità dei Cie. Poi, con modalità diverse, ovunque si delinea una carenza di servizi. A mio avviso – conclude la ricercatrice – si dovrebbero rivedere le politiche migratorie sia dell’Europa sia dei singoli Paesi Ue, partendo dalla conoscenza dettagliata di ogni singolo contesto. Il trattenimento dovrebbe essere realmente l’extrema ratio di fronte all’impossibilità di percorrere strade alternative più rispettose dei diritti umani e anche più economiche. I centri inoltre dovrebbero essere inseriti realmente nel contesto. Invece, in tutti i paesi esaminati, è come se fossero posti nel vuoto: non luoghi avulsi dal territorio, ubicati in condizione di parziale o totale invisibilità. La ragione è ovvia: i paesi democratici non possono permettersi di rendere queste realtà troppo visibili. Meno se ne sa e meglio è. La loro funzione è essenzialmente simbolica: ovunque si sono dimostrati carenti dal punto di vista dell’efficacia, ma servono a dimostrare che si è determinati ad affrontare l’“irregolarità”. Il messaggio che devono veicolare, presso l’opinione pubblica, è che i governi fanno sul serio, anche se non è vero».

Stefano Galieni