Centro Astalli

Il discorso del Papa

- 15 Settembre 2013

Servire, accompagnare, difendere. La mission dei gesuiti e della chiesa nelle parole di Francesco.

Della visita di Papa Francesco al centro Astalli sono stati molto evidenziati gli aspetti mediatici (l’arrivo senza scorta, il colloquio in mensa con una ventina di asilanti…) e anche le dure parole pronunciate verso chi tiene i «Conventi vuoti o li utilizza per tramutarli in lussuosi alberghi» invece che metterli a disposizione di chi ha bisogno. Ad altri passaggi del suo intervento, ugualmente pieni di implicazioni, è stato però dato meno spazio. Per questa ragione abbiamo pensato di proporvi il discorso nella sua interezza, in modo che ciascuno possa fare le proprie valutazioni.
Cari fratelli e sorelle, buon pomeriggio
Saluto prima di tutto voi rifugiati e rifugiate. Abbiamo ascoltato Adam e Carol: grazie per le
vostre testimonianze forti, sofferte. Ognuno di voi, cari amici, porta una storia di vita che ci parla di
drammi di guerre, di conflitti, spesso legati alle politiche internazionali. Ma ognuno di voi porta
soprattutto una ricchezza umana e religiosa, una ricchezza da accogliere, non da temere. Molti di voi
siete musulmani, di altre religioni; venite da vari Paesi, da situazioni diverse. Non dobbiamo avere
paura delle differenze! La fraternità ci fa scoprire che sono una ricchezza, un dono per tutti! Viviamo
la fraternità!
Roma! Dopo Lampedusa e gli altri luoghi di arrivo, per molte persone la nostra città è la seconda
tappa. Spesso – come abbiamo sentito – è un viaggio difficile, estenuante, anche violento quello che si
è affrontato – penso soprattutto alle donne, alle mamme, che sopportano questo pur di assicurare un
futuro ai loro figli e una speranza di vita diversa per se stesse e per la famiglia. Roma dovrebbe essere
la città che permette di ritrovare una dimensione umana, di ricominciare a sorridere. Quante volte,
invece, qui, come in altre parti, tante persone che portano scritto “protezione internazionale” sul loro
permesso di soggiorno, sono costrette a vivere in situazioni disagiate, a volte degradanti, senza la
possibilità di iniziare una vita dignitosa, di pensare a un nuovo futuro!
Grazie allora a quanti, come questo Centro e altri servizi, ecclesiali, pubblici e privati, si danno da fare
per accogliere queste persone con un progetto. Grazie a Padre Giovanni e ai Confratelli; a voi,
operatori, volontari, benefattori, che non donate solo qualcosa o del tempo, ma che cercate di entrare
in relazione con i richiedenti asilo e i rifugiati riconoscendoli come persone, impegnandovi a trovare
risposte concrete ai loro bisogni. Tenere sempre viva la speranza! Aiutare a recuperare la fiducia!
Mostrare che con l’accoglienza e la fraternità si può aprire una finestra sul futuro, più che una finestra,
una porta, e più si può avere ancora un futuro! Ed è bello che a lavorare per i rifugiati, insieme con i
Gesuiti, siano uomini e donne cristiani e anche non credenti o di altre religioni, uniti nel nome del
bene comune, che per noi cristiani è espressione dell’amore del Padre in Cristo Gesù. Sant’Ignazio di
Loyola volle che ci fosse uno spazio per accogliere i più poveri nei locali dove aveva la sua residenza
a Roma, e il Padre Arrupe, nel 1981, fondò il Servizio dei Gesuiti per i Rifugiati, e volle che la sede
romana fosse in quei locali, nel cuore della città. E penso a quel congedo spirituale del padre Arrupe in
Thailandia, proprio in un centro per i rifugiati.
Servire, accompagnare, difendere: le tre parole che sono il programma di lavoro per i Gesuiti e i loro
collaboratori.
Servire. Che cosa significa? Servire significa accogliere la persona che arriva, con attenzione; significa
chinarsi su chi ha bisogno e tendergli la mano, senza calcoli, senza timore, con tenerezza e
comprensione, come Gesù si è chinato a lavare i piedi agli Apostoli. Servire significa lavorare a fianco
dei più bisognosi, stabilire con loro prima di tutto relazioni umane, di vicinanza, legami di solidarietà.
Solidarietà, questa parola che fa paura per il mondo più sviluppato. Cercano di non dirla. È quasi una
parolaccia per loro. Ma è la nostra parola! Servire significa riconoscere e accogliere le domande di
giustizia, di speranza, e cercare insieme delle strade, dei percorsi concreti di liberazione.
I poveri sono anche maestri privilegiati della nostra conoscenza di Dio; la loro fragilità e semplicità
smascherano i nostri egoismi, le nostre false sicurezze, le nostre pretese di autosufficienza e ci guidano
all’esperienza della vicinanza e della tenerezza di Dio, a ricevere nella nostra vita il suo amore, la sua
misericordia di Padre che, con discrezione e paziente fiducia, si prende cura di noi, di tutti noi.
Da questo luogo di accoglienza, di incontro e di servizio vorrei allora che partisse una domanda per
tutti, per tutte le persone che abitano qui in questa diocesi di Roma: mi chino su chi è in difficoltà
oppure ho paura di sporcarmi le mani? Sono chiuso in me stesso, nelle mie cose, o mi accorgo di chi
ha bisogno di aiuto? Servo solo me stesso o so servire gli altri come Cristo che è venuto per servire
fino a donare la sua vita? Guardo negli occhi di coloro che chiedono giustizia o indirizzo lo sguardo
verso l’altro lato? Per non guardare gli occhi?
Accompagnare. In questi anni, il Centro Astalli ha fatto un cammino. All’inizio offriva servizi di
prima accoglienza: una mensa, un posto-letto, un aiuto legale. Poi ha imparato ad accompagnare le
persone nella ricerca del lavoro e nell’inserimento sociale. E quindi ha proposto anche attività
culturali, per contribuire a far crescere una cultura dell’accoglienza, una cultura dell’incontro e della
solidarietà, a partire dalla tutela dei diritti umani. La sola accoglienza non basta. Non basta dare un
panino se non è accompagnato dalla possibilità di imparare a camminare con le proprie gambe. La
carità che lascia il povero così com’è non è sufficiente. La misericordia vera, quella che Dio ci dona e
ci insegna, chiede la giustizia, chiede che il povero trovi la strada per non essere più tale. Chiede – e lo
chiede a noi Chiesa, a noi città di Roma, alle istituzioni – chiede che nessuno debba più avere bisogno
di una mensa, di un alloggio di fortuna, di un servizio di assistenza legale per vedere riconosciuto il
proprio diritto a vivere e a lavorare, a essere pienamente persona. Adam ha detto: “Noi rifugiati
abbiamo il dovere di fare del nostro meglio per essere integrati in Italia”. E questo è un diritto:
l’integrazione! E Carol ha detto: “I Siriani in Europa sentono la grande responsabilità di non essere un
peso, vogliamo sentirci parte attiva di una nuova società”. Anche questo è un diritto! Ecco, questa
responsabilità è la base etica, è la forza per costruire insieme. Mi domando: noi accompagniamo
questo cammino?
Difendere. Servire, accompagnare vuol dire anche difendere, vuol dire mettersi dalla parte di chi è più
debole. Quante volte leviamo la voce per difendere i nostri diritti, ma quante volte siamo indifferenti
verso i diritti degli altri! Quante volte non sappiamo o non vogliamo dare voce alla voce di chi – come
voi – ha sofferto e soffre, di chi ha visto calpestare i propri diritti, di chi ha vissuto tanta violenza che
ha soffocato anche il desiderio di avere giustizia!
Per tutta la Chiesa è importante che l’accoglienza del povero e la promozione della giustizia non
vengano affidate solo a degli “specialisti”, ma siano un’attenzione di tutta la pastorale, della
formazione dei futuri sacerdoti e religiosi, dell’impegno normale di tutte le parrocchie, i movimenti e
le aggregazioni ecclesiali. In particolare – e questo è importante e lo dico dal cuore – in particolare
vorrei invitare anche gli Istituti religiosi a leggere seriamente e con responsabilità questo segno dei
tempi. Il Signore chiama a vivere con più coraggio e generosità l’accoglienza nelle comunità, nelle
case, nei conventi vuoti… Carissimi religiosi e religiose, i conventi vuoti non servono alla Chiesa per
trasformarli in alberghi e guadagnare i soldi. I conventi vuoti non sono nostri, sono per la carne di
Cristo che sono i rifugiati. Il Signore chiama a vivere con generosità e coraggio la accoglienza nei
conventi vuoti. Certo non è qualcosa di semplice, ci vogliono criterio, responsabilità, ma ci vuole
anche coraggio. Facciamo tanto, forse siamo chiamati a fare di più, accogliendo e condividendo con
decisione ciò che la Provvidenza ci ha donato per servire. Superare la tentazione della mondanità
spirituale per essere vicini alle persone semplici e soprattutto agli ultimi. Abbiamo bisogno di
comunità solidali che vivano l’amore in modo concreto!
Ogni giorno, qui e in altri centri, tante persone, in prevalenza giovani, si mettono in fila per un pasto
caldo. Queste persone ci ricordano sofferenze e drammi dell’umanità. Ma quella fila ci dice anche che
fare qualcosa, adesso, tutti, è possibile. Basta bussare alla porta, e provare a dire: “Io ci sono. Come
posso dare una mano?”.

(Foto Centro Astalli Alessia Giuliani)